L'art. 513 C.p.p. È ancora vigente?

AutoreLuigi Fadalti
Pagine247-249

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Anche senza particolari doti di fantasia, né capacità di profettizzazione era molto facile anticipare che il «nuovo» art. 111 della Costituzione avrebbe da subito agitato il corso delle vicende giudiziarie.

Ciò almeno per un duplice ordine di motivi, entrambi immediatamente e concordemente rilevati da teorici e pratici del processo penale.

Anzitutto deve constatarsi che mentre il Parlamento, con eccezionale rapidità rispetto ai consueti ritmi di lavori, è giunto ad approvare a larghissima maggioranza la riforma dell'art. 111 Costituzione, non altrettanta tempestività vi è stata nel tradurre in norme processuali i nuovi principi e nell'allestire, come previsto dalla stessa legge costituzionale integrativa dell'art. 111, la disciplina transitoria.

Invece, mentre la riforma è già in vigore, il progetto di legge ordinaria contenente le norme di attuazione transitoria del «giusto processo» è inesorabilmente fermo alla Camera dei Deputati.

Il decreto legge (poi definitivamente convertito in legge dalla Camera stessa l'8 febbraio 2000) ha apprestato soltanto qualche disposizione transitoria tutt'altro che soddisfacente.

Inoltre l'art. 111 Cost. oggi vigente appare troppo dettagliato, talora pleonastico e talaltra ridondante 1. Page 248

In particolare ci si è domandati se, dopo aver affermato il concetto di «giusto processo» 2, legato indissolubilmente al «principio del contraddittorio nella formazione della prova», che riflette il contenuto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e di quanto ha elaborato la Corte di Strasburgo, sia stato opportuno introdurre nel nuovo terzo comma dell'art. 111 della Costituzione ulteriori, e ben più dettagliate, regole che si ispirano all'art. 6 della Convenzione citata, ma «con omissioni, inserzioni e modifiche e, con l'aggiunta, nel comma successivo, di una specie di exclusionary rule (il cosiddetto super 513) sulla sorte di dichiarazioni accusatorie non confermate in dibattimento» 3.

Ovviamente la prima norma a subire il fuoco incrociato di difensori, pubblici ministeri e giudicanti è stato l'art. 513 c.p.p. così come «modificato» 4 (questa è la definizione utilizzata nella ordinanza in commento) dalla sentenza n. 161/1998 della Corte costituzionale.

Il contenuto di quella decisione è a tutti noto. La Corte costituzionale, richiamando per implicito la propria precedente sentenza 255 del 1992, la quale esordiva solennemente affermando come «il fine primario ed ineludibile del processo penale» non possa «che rimanere quello della ricerca della verità» creando l'inedito il «principio di non dispersione della prova», aveva dichiarato incostituzionale l'art. 513 c.p.p., nel testo vigente a seguito della L. 267/1997, nella parte in cui non prevedeva, qualora il dichiarante rifiutasse o comunque omettesse in tutto od in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto di sue precedenti dichiarazioni, che potesse darsi corso prima alla «contestazione» delle precedenti dichiarazioni medesime e successivamente all'acquisizione delle stesse ai fini di prova nei modi disciplinati dall'art. 500 comma secondo bis e quarto per l'esame testimoniale.

La Corte, ragionando per vero in modo assai tortuoso, si era guardata bene dall'esplicitare, presupponendo la contestazione una difformità, quale difformità potesse mai esservi tra le dichiarazioni rese in precedenza e le «non dichiarazioni» del soggetto il quale, decidendo di non sottoporsi all'esame dibattimentale, rifiutasse a priori di rispondere a qualsivoglia domanda 5.

Tanto è vero che, in allora, taluno sostenne come la sentenza n. 361/1998 la Corte costituzionale avesse eliminato «proprio la facoltà dell'imputato di rifiutare l'esame, quando questa sia richiesta per provare la responsabilità altrui» 6.

Siffatta idea, come si vedrà, si riaffaccia anche nell'ordinanza del Tribunale di...

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