Investigazioni difensive e giudizio abbreviato: un grande equivoco

AutoreGiuseppe Luigi Fanuli
Pagine415-426

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@1. Il caso-limite

- Per cogliere la rilevanza della questione sembra utile prendere le mosse dall'esame di un caso costruito «in vitro», sul presupposto giuridico - conforme all'indirizzo interpretativo ampiamente maggioritario 1 - della utilizzabilità ai fini della prova degli atti di investigazione difensiva in sede di giudizio abbreviato.

Una lunga indagine per omicidio pluriaggravato commesso in zona ad alta densità mafiosa si conclude con l'esercizio dell'azione penale nei confronti di Tizio, ricco e potente personaggio del luogo, sulla base di un quadro indiziario assai qualificato e conforme ai parametri di cui all'art. 192 comma 2 c.p.p. All'udienza preliminare il difensore dell'imputato deposita documentazione relativa ad investigazioni difensive, avente ad oggetto, principalmente, decine di verbali di assunzioni di informazioni. Più specificamente, il contenuto di tali verbali tende a svalutare, uno ad uno, la valenza indiziaria di tutti i fatti posti a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio (ogni fatto è svalutato dalle dichiarazioni di tre o quattro persone). Subito dopo il deposito della documentazione l'imputato chiede di essere giudicato con rito abbreviato (non condizionato). Il P.M. non interloquisce, né avanza richieste. Il giudice ammette il rito e, all'esito del giudizio - stante la contraddittorietà della prova - assolve l'imputato, con sentenza sorretta da ampia e articolata motivazione. La sentenza passa in giudicato. Dopo qualche tempo emerge che i dichiaranti di cui ai verbali delle investigazioni difensive erano, in parte, «contigui» al clan dell'imputato, altri erano stati minacciati dallo stesso (o da suoi sodali), altri erano stati «pagati» profumatamente, altri ancora dimoravano precariamente in lontane località estere.

Ci si chiede se casi come questo possano «legittimamente» verificarsi, alla stregua del sistema processuale vigente (salvi, ovviamente, i risvolti di diritto penale sostanziale).

Nessuna violazione procedurale è ravvisabile nelle condotte dei protagonisti del processo.

Il difensore (o un suo sostituto) si è limitato a raccogliere le dichiarazioni delle persone indicategli dallo stesso imputato, redigendo verbali rispondenti ai requisiti di cui all'art. 391-ter comma 2 c.p.p. e alle disposizioni, richiamate dall'anzidetta norma, del titolo III del libro II del c.p.p.: normativa che non prevede l'obbligo di indicare i rapporti esistenti con l'imputato, l'esistenza di pendenze o precedenti penali 2.

A ciò va aggiunto che non esiste, per le investigazioni difensive, alcun obbligo rispetto all'an, al quantum ed al quomodo della ostensione dei risultati delle stesse. A differenza di quanto previsto per le indagini preliminari condotte dal pubblico ministero, la cui completa documentazione deve essere resa disponibile alle parti private secondo le cadenze cronologiche che ne regolano la discovery, il difensore non ha alcun obbligo di porre a disposizione delle altre parti le risultanze della propria attività investigativa 3; ciò avverrà se e nei limiti in cui il difensore reputi i contenuti dell'atto, ormai cristallizzati, concretamente utili ai fini di un proficuo esercizio del diritto di difesa, nella generale ottica scolpita dall'art. 327-bis comma 1 c.p.p.

Per cui il difensore - nel caso in esame - ha del tutto legittimamente depositato tali dichiarazioni (rectius: solo quelle ritenute utili) all'udienza preliminare, un attimo prima della richiesta del rito alternativo.

Quanto all'organo giudicante, va premesso che il provvedimento di ammissione al giudizio abbreviato non condizionato (art. 438 comma 4 c.p.p.) deve ritenersi «atto dovuto» e che, secondo l'orientamento interpretativo prevalente, la presentazione della richiesta di giudizio abbreviato preclude la continuazione dell'udienza preliminare, non potendo il giudice riservare l'ammissione al rito speciale all'esito dell'integrazione probatoria ex artt. 421-bis e 422 c.p.p. 4. Il che significa, in altri termini, che al momento della richiesta di rito abbreviato, seguita dal provvedimento ammissivo del giudice, si cristallizza il materiale probatorio utilizzabile per la decisione, di cui all'art. 442 comma 1 bis c.p.p.

È ben vero che il giudice, avrebbe potuto provvedere alle integrazioni d'ufficio ex art. 441 comma 5 c.p.p. (sull'opinabile presupposto di non poter decidere allo stato degli atti): ma non può essere censurato il fatto di non aver disposto in tal senso. Del resto, a fronte di numerose dichiarazioni concordanti, come avrebbe dovuto operare tali integrazioni? Procedendo a campione? O sentendo tutte le Page 416 persone oggetto di investigazioni difensive? Perché non farlo, allora, anche con le fonti di prova d'accusa? Con il ricorso sistematico all'integrazione d'ufficio solo per le fonti introdotte dalla difesa 5 non si introduce surrettiziamente una presunzione di inattendibilità (o di minore attendibilità) delle dichiarazioni raccolte dalla difesa, questa sì, in contrasto con il principio costituzionale della «parità delle parti», di cui all'art. 111 comma 2 Cost.?

Ancor meno censurabile appare l'operato del giudice nell'ottica «decisoria».

Al riguardo vanno richiamati due principi consolidati in giurisprudenza.

Il primo riguarda la valenza probatoria degli atti raccolti dal difensore (ove utilizzabili):

Gli elementi di prova raccolti dal difensore ai sensi dell'art. 391 bis c.p.p. sono equiparabili, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelli raccolti dal pubblico ministero e, pertanto, il giudice al quale essi siano stati direttamente presentati ai sensi dell'art. 391 octies stesso codice non può limitarsi ad acquisirli, ma deve valutarli unitamente a tutte le altre risultanze del procedimento, spiegando - ove ritenga di disattenderli - le relative ragioni con adeguato apparato argomentativo

6 (fattispecie relative a giudizio di riesame di misure cautelari personali).

Il secondo, più generale, in materia di valutazione della prova dichiarativa:

In tema di valutazione della prova, e con specifico riguardo alla prova testimoniale, il giudice, pur essendo indubbiamente tenuto a valutare criticamente, verificandone l'attendibilità, il contenuto della testimonianza, non è però certamente tenuto ad assumere come base del proprio ragionamento l'ipotesi che il teste dica scientemente il falso o si inganni su ciò che forma l'oggetto essenziale della propria deposizione, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere. Ciò significa che, in assenza di siffatti elementi, il giudice deve partire invece dal presupposto che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come certamente vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre eventuali fonti probatorie di pari valenza

7.

Per cui il giudice, non avendo ragioni per dubitare dell'attendibilità delle persone sentite dalla difesa, ha correttamente ritenuto che tali dichiarazioni potessero essere poste a fondamento della pronunzia assolutoria.

Quanto al pubblico ministero, evidentemente lo stesso non poteva opporsi all'ammissione del rito, atteso che, dopo la riforma di cui alla legge n. 479/ 1999 (c.d. legge Carotti) non esiste più in capo a tale organo alcun potere di veto. Nel caso in esame, a seguito del deposito degli atti di investigazione difensiva, avrebbe potuto chiedere un rinvio tecnico per esaminare la documentazione, ma non certamente per svolgere contro-indagini, non essendo prevista tale possibilità. Tra l'altro le risultanze di tali indagini (che, comunque, il P.M. avrebbe potuto legittimamente svolgere nelle more del rinvio dell'udienza di discussione) mai sarebbero potute entrare nel materiale utilizzabile per la decisione del giudizio abbreviato, stante la cristallizzazione avvenuta, come detto, a seguito della richiesta del rito 8.

Né si può censurare la mancata impugnazione della sentenza assolutoria: l'art. 443 comma 1 c.p.p. così come modificato dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, esclude radicalmente la possibilità di appello del P.M., anche nei casi eccezionali di prova nuova decisiva di cui all'art. 593 c.p.p. Quindi il P.M. non avrebbe potuto proporre impugnazione neanche nell'ipotesi in cui fosse venuto tempestivamente a conoscenza della falsità delle dichiarazioni oggetto di investigazioni difensive. Non esistevano, poi, nel caso ipotizzato, né violazioni di legge, né vizi motivazionali tali da giustificare il ricorso in Cassazione.

Nel caso esaminato, non è difficile individuare la causa del fallimento del processo come strumento di giustizia, nel fatto che la prova a discarico è stata formata unilateralmente ed unilateralmente imposta alla valutazione del giudice, senza spazio per un confronto dialettico (che, verosimilmente, avrebbe consentito di scoprire «il trucco»).

Il vizio di fondo sta proprio nel presupposto: la possibilità per l'imputato di essere giudicato con rito abbreviato sulla base (anche) degli atti di investigazione difensiva (unilateralmente formati, selezionati ed introdotti in giudizio).

Presupposto che, come si cercherà di dimostrare, non ha un serio fondamento giuridico.

@2. Indagini difensive e principio costituzionale del «contraddittorio nella formazione della prova»

- Il più severo ostacolo all'utilizzabilità degli atti di investigazioni difensive in sede di giudizio abbreviato è rappresentato dal principio costituzionale del «contraddittorio nella formazione della prova». È noto che a seguito della riforma costituzionale sul «giusto processo» il processo penale deve essere regolato da tale principio, fatte salve specifiche eccezioni.

La Carta costituzionale non fornisce una definizione di «contraddittorio»: spetta pertanto all'interprete il compito di determinarne il significato e le connotazioni. Se, da un lato, devono evitarsi...

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