Potere informativo del perito e ruolo della banca nella perizia in materia bancaria

AutoreDomenico Potetti
Pagine19-29

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@1. Introduzione.

È ben noto ad ogni operatore giudiziario, che assai spesso l'indagine penale (genericamente intesa) non può prescindere dall'utilizzazione di conoscenze tecniche e scientifiche, ogni qualvolta l'accertamento penale abbia ad oggetto materie specialistiche.

Non è nemmeno ipotizzabile che il magistrato penale possa fare sempre e comunque a meno dell'ausilio di esperti, quando si tratti di penetrare in settori come quelli, ad esempio, fallimentari o fiscali, la cui trattazione implica sovente la conoscenza di materie specialistiche.

Ebbene, può accadere che l'opera del perito incontri (fra i tanti ostacoli possibili), un ostacolo tipico e classico, oltre che da tempo dibattuto, e cioè il cosiddetto segreto bancario.

L'incrociarsi dell'opera del perito con il cosiddetto segreto bancario comporta il conflitto, almeno potenziale, fra opposte esigenze, e cioè fra gli interessi sottesi all'indagine penale e gli interessi (di natura privata) sottesi al segreto bancario.

Sul piano pratico, tale conflitto si inserisce nell'ambito del tormentato rapporto fra magistrato penale e banche, continumente oscillante fra collaborazione, diffidenza, fastidio.

Specifico argomento delle presenti note è costituito non tanto, genericamente, dal rapporto fra la perizia penale e il segreto bancario, quanto, più specificamente, dal rapporto tra il potere informativo del perito (articolo 228 comma 3 del codice di procedura penale) e l'obbligo della banca di adempiere alle richieste di informazioni ad essa rivolte direttamente dal perito medesimo.

Lo svolgimento di un tale tema implica la soluzione di vari problemi, che di seguito si cercherà di risolvere.

@2. Il potere informativo del perito.

Rinviando ad altra sede la trattazione specifica dell'argomento 1, occorre comunque accennare a taluni aspetti relativi, in generale, al potere di acquisizione istruttoria del perito, così come previsto dall'articolo 228 comma 3 del codice di procedura penale.

Per il legislatore del 1989 trattavasi evidentemente di risolvere un problema: se cioè dovesse, oppur no, legittimarsi la figura del perito «percipiente» (cioè abilitato anche alla raccolta di informazioni, sia pure strumentali rispetto alla risposta al quesito), oltre a quella del perito «deducente» (abilitato, cioè, semplicemente alla interpretazione di dati cognitivi già acquisiti al processo). E non pare esservi dubbio che la formulazione della disposizione in esame (art. 228 comma 3 c.p.p.), inequivocamente riconosce (con notevole ampiezza) anche la figura del perito «percipiente», in particolare laddove esplicitamente, prima ammette la facoltà del perito di richiedere notizie in via autonoma (anche a persone mai intervenute nel procedimento, come risulta dall'ampia previsione letterale), e poi ammette che gli elementi in tal modo acquisiti possano essere utilizzati ai fini dell'accertamento peritale (il che è come dire che possono essere utilizzati ai fini della risposta al quesito, della quale il giudice dovrà tenere conto) 2.

Appare quindi chiara la funzione (anche) di acquisizione probatoria del perito; funzione il cui limite fondamentale sta, dunque, nella sua strumentalità rispetto alla risposta al quesito («... ai fini dello svolgimento dell'incarico...»; «... ai fini dell'accertamento peritale»); superato quel limite interverrebbe la sanzione della inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. Ma, fermo quel limite, gli elementi cognitivi autonomamente acquisiti dal perito andranno a far parte (attraverso la risposta al quesito), con pari dignità, del materiale del quale il giudice dovrà tenere conto ai fini della decisione 3.

D'altra parte, il riconoscimento al perito di un potere autonomo di acquisizione probatoria è indispensabile ai fini degli stessi accertamenti peritali.

Ciò consegue ad un assunto che pare incontestabile, e che cioè le «specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche» (art. 220 comma 1 c.p.p.) non solo possono, ovviamente, rivelarsi indispensabili nella elaborazione e valutazione di dati fattuali già acquisiti al processo, ma possono rivelarsi altrettanto indispensabili a monte, e cioè nella stessa opera di selezione e acquisizione di quei dati 4.

Si pensi, ad esempio, al perito contabile, al quale venga affidato il compito di controllare se, nelle pieghe di una fittissima e complessa contabilità di una grande impresa, si nascondano operazioni di bancarotta fraudolenta per distrazione o illeciti fiscali penalmente sanzionati: chi meglio del perito potrà procedere alla scelta dei documenti e delle informazioni utili per la rispota al quesito?

O si pensi al perito medico legale, al quale sia affidato, nell'ambito di un processo per colpa medica, il compito di ricostruire gli antefatti e lo svolgimento di un delicatissimo intervento chirurgico: chi meglio di lui potrà individuare i dati tecnici dei quali abbia bisogno, formulando in modo adeguato le richieste di acquisizione dei dati stessi?

Peraltro, la legittimazione del «perito percipiente», che può anche raccogliere dati ancora non acquisiti al processo, oltre che svolgere valutazioni sui dati, non scaturisce solo dalle esigenze della prassi e dall'art. 228 comma 3 del c.p.p., ma, quantomeno, anche dalla generale definizione contenuta nell'art. 220 comma 1 del codice di rito penale, laddove si fa riferimento chiaro, a proposito dell'attività del perito, allo svolgimento di indagni e alla acquisizione di dati (oltre che di valutazioni); e quindi, una sana aderenza alla lettera della disposizione codicistica renderà veramente arduo negare che al perito sia consentito acquisire nuovi dati probatori a beneficio del processo.

Se poi la preoccupazione fosse quella del rispetto del contraddittorio nella formazione della prova, allora sarà sufficiente osservare che il contraddittorio è, nel caso di specie, assicurato dal potere delle parti di intervenire alle operazioni peritali (come si desume dall'articolo 229 comma 2 codice di procedura penale), non dimenticando che anche ai consulenti tecnici delle parti è espressamente concesso il po-Page 20tere di partecipare alle operazioni peritali medesime, e formulare osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione (v. art. 230 comma 2 c.p.p.).

Si consideri, inoltre, che le parti potranno rivolgersi al giudice, sia per la soluzione dei problemi relativi ai poteri del perito e ai limiti dell'incarico, sia per richiedere il suo intervento di persona, cosa naturalmente sempre possibile (articolo 228 comma 4 c.p.p.).

Vi è poi un secondo, importantissimo, momento di verifica e di controllo dell'attività del perito, ed è quello del contraddittorio dibattimentale sulla medesima attività peritale.

Infatti, l'art. 468 c.p.p. prevede chiaramente il diritto delle parti di chiedere l'esame del perito, che avverrà con le penetranti forme previste per l'esame dei testimoni (art. 501 c.p.p.; inoltre l'art. 508 comma 3 c.p.p., in tema di perizia dibattimentale, rinvia proprio all'art. 501 c.p.p.).

Quando poi l'esito della perizia assuma la più complessa forma della relazione scritta, l'esame del perito è addirittura condizione per la lettura (e quindi per l'utilizzazione: art. 515 c.p.p.) della relazione peritale medesima; così dispone infatti l'art. 511 comma 3 c.p.p., a pena, ritengo, di nullità 5.

All'esito della verifica dibattimentale, potrà darsi il caso che le informazioni acquisite dal perito non siano contraddette da alcun altro elemento raccolto nel fascicolo dibattimentale, con la conseguenza che dette informazioni saranno pacificamente utilizzabili ai fini della decisione; nel caso di contraddizione, invece, il giudice dovrà valutare gli elementi contrapposti, motivando sui risultati acquisiti all'esito di tale valutazione, e dando conto dei criteri adottati (art. 192 comma 1 c.p.p.) come del resto è chiamato a fare in via generale 6.

@3. Segreto bancario e giustizia penale.

L'analisi approfondita della problematica relativa al c.d. «segreto bancario» presenta aspetti di notevole complessità, e merita un'attenzione specifica; pertanto essa esula dai limiti del presente scritto 7.

Alcuni cenni, strettamente funzionali al tema che ci occupa, sembrano tuttavia opportuni.

Problema fondamentale è quello di riconoscere quale sia il fondamento giuridico del segreto bancario.

Da un lato si è tentato di rinvenire tale fondamento in talune norme sparse nell'ordinamento giuridico, precisandosi peraltro che non è rinvenibile nell'ordinamento italiano una norma positiva che preveda e regoli specificamente l'istituto del segreto bancario.

Da altri si è tentato di rinvenire il fondamento giuridico del segreto bancario in norme di natura privatistica, quali l'articolo 1175 c.c. (il quale prescrive che il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza); l'articolo 1374 c.c. (secondo il quale il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità); l'articolo 1375 (secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede); l'articolo 1337 del codice civile (secondo il quale le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede); l'articolo 2043 c.c. (secondo il quale qualunque fatto doloso o colposo, che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno).

Da altri ancora si è invece rinvenuto il fondamento giuridico del segreto bancario nell'articolo 622 del codice penale, il quale punisce chi riveli senza giusta causa, o impieghi o proprio o altrui profitto, un segreto conosciuto per ragioni del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte.

Secondo altra tesi, il fondamento positivo del segreto bancario sarebbe riconducibile, invece, ad un generalizzato diritto alla riservatezza.

Ritiene comunque chi scrive, che la tesi preferibile sia tuttora...

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