La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria alla luce della legge n. 63 Del 2001: un mero ripristino del divieto caducato dalla consulta?

AutoreGiuseppe Luigi Fanuli
Pagine457-462

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@1. Il caso concreto.

La sentenza che si annota è intervenuta nella controversa materia della testimonianza indiretta della polizia giudiziaria delineandone in modo intrinsecamente coerente - anche, se, come si dirà, non condivisibile - natura e limiti.

Nel caso oggetto di valutazione da parte del Giudice dell'udienza preliminare, a carico dell'imputato militavano (solo) le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria da persona poi deceduta. Tali dichiarazioni, peraltro - come si legge nella sentenza - non erano state documentate nelle forme previste dall'art. 357 comma secondo lett. c) del c.p.p. - che impone alla P.G. di redigere verbale tra l'altro delle dichiarazioni assunte a norma dell'art. 351 - ma mediante semplice annotazione.

Ciò ha indotto il Giudicante a pronunziare sentenza di non luogo a procedere, ritenendo che le anzidette dichiarazioni, nella prospettiva dibattimentale, non potessero essere utili all'accusa, in quanto, da un lato, non «recuperabili» attraverso la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, dall'altro - appunto perché non verbalizzate - non acquisibili ex art. 512 c.p.p.

Alla esclusione della testimonianza indiretta della P.G. - che è ciò che qui interessa - si perviene attraverso il seguente iter argomentativo:

- la ratio della nuova formulazione dell'art. 195 comma 4 c.p.p., introdotta con la legge sul c.d. giusto processo è sicuramente quella di voler ripristinare il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria;

- su tale premessa sarebbe contraddittorio ammettere che la polizia giudiziaria può testimoniare sulle dichiarazioni ricevute dal teste, ma non verbalizzate ai sensi dell'art. 357 c.p.p. Ciò, in sostanza, equivarrebbe a «premiare» gli inquirenti proprio nel caso di violazione formale commessa dagli stessi, contemporaneamente penalizzando la difesa che, non disponendo del verbale, non potrebbe neanche compiutamente verificare se la testimonianza indiretta resa dalla polizia giudiziaria sia perfettamente conforme a quanto dalla stessa appresa dalla fonte;

- per evitare problemi di irragionevolezza nella interpretazione che consentisse la testimonianza della P.G. su atti indebitamente documentati mediante annotazione, occorre estendere in via interpretativa (per rendere la norma conforme all'art. 3 della Cost.) il divieto di cui all'art. 195 comma 4 del c.p.p. anche ai casi di atti documentati dalla polizia giudiziaria tramite annotazione.

Tale interpretazione, peraltro molto acuta e stimolante, si espone a tutta una serie di obiezioni critiche, e, per le ragioni che si esporranno nel seguito, non si sottrae a quei problemi di compatibilità costituzionale che mira a risolvere.

@2. L'art. 195 comma 4 c.p.p., nella sua originaria formulazione, e la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 1992.

Come è noto, la direttiva n. 31 della legge delega n. 81/1987 per l'emanazione del nuovo codice di rito penale fissava il «divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianze della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese dai testimoni».

Con la disciplina dettata dall'art. 195 comma 4 del nuovo c.p.p. nella sua prima stesura («Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni») secondo quanto esplicitato nella relazione, si era inteso «garantire ad un tempo l'oralità delle prove e il diritto di difesa».

In realtà, nell'impianto originario del codice i principi di oralità e immediatezza erano affermati in senso assoluto. Così, ad esempio, le dichiarazioni rese dal testimone alla polizia giudiziaria non erano utilizzabili ai fini probatori neanche nel caso in cui il dichiarante fosse morto prima dell'escussione dibattimentale 1, ovvero nel caso in cui, sentito in udienza, tacesse a seguito di minaccia; il diritto di difesa poteva essere esercitato solo in dibattimento, perché durante le indagini si svolgevano investigazioni e si ponevano in essere atti che in nessun modo avrebbero potuto assumere valenza probatoria ai fini della decisione; il diritto alla prova era ontologicamente esercitabile nell'ambito della fase processuale, atteso che la stessa Relazione al progetto preliminare affermava che l'assunzione della prova in una fase procedimentale antecedente a quella del giudizio costituiva un pregiudizio da evitare; i casi di incidente probatorio erano tassativi e comunque disciplinati con una procedura complessa 2.

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In tale impianto, che stabiliva categoricamente l'inidoneità dell'atto di indagine ad assumere valenza probatoria, il problema della testimonianza indiretta della polizia giudiziaria venne, pertanto, affrontato e risolto in modo conseguenziale 3. Delineato lo statuto della prova che doveva formarsi attraverso l'esame diretto da parte del giudice della fonte da cui determinate dichiarazioni provenivano, la possibilità di ammettere la testimonianza indiretta della P.G. non poteva che essere in netto contrasto con i principi fondanti il sistema, atteso che in tal modo si consentiva di introdurre nel processo una prova orale meramente riproduttiva di dichiarazioni assunte unilateralmente e senza contraddittorio 4.

Dal canto suo la prassi giurisprudenziale registrò la tensione di tale divieto con un principio di Costituzione materiale sotteso agli artt. 24 e 112 Cost., e che può sinteticamente essere riassunto come l'esigenza fondamentale dello Stato, cui corrispondono legittime aspettative dei cittadini, di assicurare l'effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale 5.

Il coagulo di tanto fermento di insofferenze sul divieto in esame - soprattutto per la perenzione del materiale investigativo nell'ipotesi di impossibilità di presenza, in dibattimento, della fonte diretta - si rapprese nell'intervento del Giudice delle leggi 6.

La Corte costituzionale, invero, con la sentenza n. 24 del 31 gennaio 1992 7 dichiarò illegittima la norma in questione, per contrasto con il principio di ragionevolezza e uguaglianza.

La Consulta ritenne che il divieto in questione fosse irragionevole nelle premesse, attesa l'assenza di norme che prevedessero ipotesi di incapacità o incompatibilità a deporre per la polizia giudiziaria, e che non era possibile attribuire ontologicamente alla polizia un grado minore di attendibilità, anche in considerazione del ruolo e della funzione riconosciuto ad essa dall'ordinamento.

In particolare, la Corte evidenziò come anche nel caso di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria la prova non venisse a formarsi in violazione del principio di oralità e immediatezza, dal momento che le dichiarazioni venivano pur sempre rese in dibattimento ed attraverso l'esame incrociato di tutte le parti 8.

Osservava in proposito la Corte che in base al principio di oralità «il convincimento del giudice deve essenzialmente formarsi sulla base delle prove che si assumono al dibattimento nella pienezza del contraddittorio», ma che la testimonianza indiretta della P.G. «non solo non contrasta(va), ma anzi si conforma(va) pienamente» con detto principio, sicché, in diretto contrasto con le finalità della norma quali enunciate nella relazione al codice si affermava che «l'oralità della prova è fuori discussione, mentre il diritto di difesa è comunque tutelato attraverso l'interrogatorio diretto ed il contro interrogatorio del testimone de relato».

@3. La reintroduzione del divieto del «nuovo» art. 195 comma 4 c.p.p. Questioni di incostituzionalità. Sentenza n. 32/2002 della Corte costituzionale.

A seguito della novella costituzionale dell'art. 111, il nesso di strumentalità tra il divieto di testimonianza indiretta della P.G. e la piena tutela del contraddittorio ha suggerito al legislatore della L. n. 63/2001 la reintroduzione del divieto nel nuovo art. 195 comma 4 c.p.p.

Nella novella si staglia con nettezza il differente scopo della disciplina di cui ai primi tre commi di tale norma (funzionali ad un controllo di attendibilità della fonte indiretta ed applicabili anche alla P.G. negli «altri casi» in cui è ammessa una sua testimonianza indiretta), dalla disciplina della prima parte dello stesso art. 195 comma 4.

Il divieto è stato così correttamente limitato alle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 comma 2 lett. a) e b) c.p.p.

La testimonianza indiretta è perciò vietata con riferimento: a) al contenuto delle dichiarazioni assunte da persone informate sui fatti e da imputati di reato connesso o collegato (art. 351); b) alle denunce, querele e istanze ricevute oralmente (art. 357 comma 2 lettera a); c) alle sommarie informazioni e alle dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (art. 357 comma 2 lettera b, il cui divieto si iscrive in quello generale di testimonianza ex art. 62).

In siffatta disciplina positiva si coglie una linea di fondo «tendente a vietare la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria quante volte la deposizione sia stata formalmente raccolta, posto che quegli atti hanno una loro autonoma possibilità di utilizzazione, con dei limiti che si presterebbero a facili aggiramenti ove fosse possibile, anche in simili casi, la deposizione indiretta sul contenuto di quegli atti» 9.

La reintroduzione del divieto già ritenuto illegittimo dalla Consulta, ha sollevato dubbi di incostituzionalità, sulla scorta di argomentazioni riecheggianti - in buona parte - quelle già sottoposte al vaglio della Corte nel 1992.

Vanno qui ricordate, in particolare, le questioni di legittimità costituzionale relative al divieto testimoniale in esame, sollevate dal Tribunale di Palmi 10, dal Tribunale di Roma 11 e dalla Corte d'assise di Messina 12, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. Il nucleo centrale delle questioni investiva il supposto contrasto dell'art. 195, comma 4, c.p.p. con l'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'irragionevole disparità della...

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