Indennitá di espropriazione: Il pendolo della corte costituzionale oscilla tra serio ristoro e valore venale (prime impressioni)

AutoreNino Scripelliti
Pagine32-35

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@1. Premessa

- Nella terra di nessuno, ove solo una sottile linea d'ombra separa la politica dal diritto, si snodano le faticose argomentazioni dell'ultimo arresto della Corte costituzionale, che per l'ennesima volta ha sottoposto a scrutinio l'art. 5 bis del D.L. n. 333/1992 (convertito con legge n. 359/1992) che, per la determinazione dell'indennità di espropriazione delle aree fabbricabili, che tali siano di fatto e di diritto, ebbe a reintrodurre l'applicazione «dell'art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». L'importo così determinato viene ulteriormente ridotto del 40 per cento, in danno dell'espropriato che non abbia accettato l'indennità e non abbia ceduto volontariamente il bene. Tale sistema di qualificazione, che la Corte in precedenti decisioni aveva certificato come rispondente ai canoni dell'art. 42 della Costituzione, ora secondo la sentenza n. 348/2007 contrasta con l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU 1, poiché il valore di mercato del bene, che pure è il primo degli elementi del calcolo ex art. 5 bis, assume solo la funzione di dato di partenza per due successive operazioni esclusivamente riduttive (divisione per metà e riduzione del 40%, che tuttavia la consolidata interpretazione della giurisprudenza ha poi escluso per coloro che hanno rifiutato indennità sensibilmente incongrue), alle quali segue la terza operazione riduttiva, poco importa dal punto di vista sostanziale se estranea al procedimento espropriativo, rappresentata dalla decurtazione fiscale finale del 20% 2, con l'effetto di una indennità finale che oscilla tra il 30 ed il 20% del valore di mercato. Secondo la Corte tale metodo «non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al "ragionevole legame" con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il "serio ristoro" richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte».

Si potrebbe sbrigativamente osservare che se si àncora una norma quale l'art. 5 bis, a parametri definitori quali serio ristoro, ci si deve poi attendere un range di opzioni normative all'interno del quale la discrezionalità di tutti i poteri legislativi, in senso lato e quindi compresa la Corte, spazia agevolmente senza particolari oneri di motivazione. Ma detto questo, è doveroso anche riconoscere l'onestà del percorso argomentativo che approda a questo, per certi aspetti, clamoroso revirement, e che non sfugge a nessuna possibile obiezione a cominciare dalla granitica giurisprudenza della stessa Corte. Questa a partire dalla fondamentale sentenza 16 giugno 1993, n. 283 ha convalidato l'articolo 5 bis, prevalentemente confrontandolo con l'articolo 42 Cost., affermando sul piano dei principi la necessaria distinzione concettuale tra valore venale ed indennizzo, nel senso che l'articolo 42 garantisce solo un serio ristoro della ablazione e non la piena reintegrazione patrimoniale che l'espropriato viene a subire (principio tuttora valido secondo la sentenza n. 348/2007), ma affermando anche sul piano applicativo, che il sistema dell'articolo 5 bis assicura il serio ristoro all'espropriato: affermazione confermata costantemente dalla Corte nei successivi quattordici anni, a partire dal 1993.

@2. Il superamento della precedente giurisprudenza nel segno della CEDU

- La sentenza n. 348/2007 non reca quindi grandi novità sul piano dei principi (ve ne sono invece quanto ai riferimenti normativi, come si vedrà), considerato che già la sentenza n. 283/1993 pur giungendo a conclusioni opposte, affermava che la giurisprudenza della Corte «si è subito attestata su un principio di fondo, ripetutamente affermato, secondo cui, da una parte, l'indennità di espropriazione non garantisce all'espropriato il diritto ad un'indennità esattamente commisurata al valore venale del bene e, dall'altra, l'indennità stessa non può essere (in negativo) meramente simbolica od irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata» 3, pur dovendo il legislatore attribuire rilevanza alla destinazione urbanistica riconosciuta come fattore di valore aggiunto (rendita di posizione) «rispetto al contenuto essenziale del diritto di proprietà sicché diverso può essere il bilanciamento tra interesse generale ed interesse privato rispetto all'ipotesi dell'espropriazione di aree non fabbricabili».

La sentenza n. 348/2007 non disconosce la precedente giurisprudenza costituzionale, ma supporta la pronuncia di incostituzionalità dell'art. 5 bis evocando il (nuovo) parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che diviene operativo quando siano individuati gli «obblighi internazionali» limitativi della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso tali obblighi sono scaturiti dalle norme della CEDU, ed in specie dell'art. 1 Protocollo 1 della Convenzione, al quale il diritto interno deve adeguarsi.

La sentenza in primo...

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