In claris non fit interpretatio?

AutoreCorrado Sforza Fogliani
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In claris non fit interpretatio

All'università, ci hanno insegnato questo. Il broccardo, però, è sempre meno attuale. E non solo a livello di giudici di merito (molti dei quali - siamo a questo - si fanno addirittura un punto d'onore di andare di diverso avviso dalla Cassazione), ma anche a livello di giurisdizione di legittimità. Ci sono due esempi illuminanti, entrambi a proposito dell'art. 42 della legge dell'equo canone (la norma che riguarda le locazioni che hanno come parte conduttrice lo Stato, i Comuni, i partiti, i sindacati e così via).

Primo esempio. Dice il richiamato art. 42 che alle locazioni in parola si applica «il preavviso per il rilascio di cui all'art. 28» (della stessa legge). Quest'ultimo, dal canto suo, non cita - espressamente - alcun «preavviso», ma - tantomeno - richiama l'intero art. 28 e l'intero sistema (rinnovazione del contratto e diniego della rinnovazione alla prima scadenza) in esso previsto. C'é di più, anzi: i lavori preparatori affermano, per i contratti in questione, «la esclusione naturalmente di tutte le altre norme relative alla rinnovazione» (Atti Senato, seduta 5 dicembre 1977).

Ebbene, la (pur infelice) espressione usata dal legislatore («preavviso», all'evidenza, anzicché «disdetta», solo di quest'ultima trattando - correttamente - il richiamato art. 28) è stata sufficiente alla Cassazione per far dire alla norma esattamente il contrario di quanto dicono i lavori preparatori (che dovrebbero, pure, indicare l'«intenzione del legislatore» e cioé uno dei primi criteri interpretativi delle norme, secondo l'art. 12 preleggi). Il Supremo Collegio ha così stabilito (sent. 9 luglio 1997, n. 6227) che l'"espressione" «preavviso per il rilascio» usata nell'art. 42 comporta un richiamo all'intera normativa della durata e della cessazione dei rapporti locativi, come prevista dall'art. 28".

"Sembra corretto - dice testualmente la sentenza - dedurre che il legislatore, usando l'espressione «preavviso per il rilascio» abbia voluto riferirsi non ad una semplice disdetta, ma ad una disdetta motivata": di qui, l'applicazione a questi contratti dell'istituto del diniego di rinnovazione. Per riferirsi al quale, il legislatore avrebbe invece dovuto richiamare l'art. 28, puramente e semplicemente, senza alcuna specificazione (che, invece, ha fatto).

Secondo esempio. Sempre il precitato art. 42, stabilisce che i contratti in parola «hanno la durata di cui al primo comma dell'art. 27» (6 anni). Quest'ultima...

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