I Limiti relativi alla rilevanza della volontà dell'impugnante nell'ipotesi di erronea proposizione del mezzo di gravame

AutoreAnna Maria Siagura
Pagine411-414

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  1. - In questi ultimi anni le Sezioni unite della Cassazione 1 hanno affrontato nuovamente la problematica della riqualificazione delle impugnazioni nel caso di erronea indicazione del mezzo di gravame prescelto. In realtà, l'elaborazione di una norma ad hoc nel vigente codice di procedura penale, e cioè dell'art. 568, comma 5, secondo cui «l'impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l'ha proposta», avrebbe dovuto sgombrare il campo dai dubbi e dalle questioni sussistenti in precedenza. Nelle pronunce in oggetto, tuttavia, la Suprema Corte suggerisce una più chiara esegesi nella norma precitata dell'art. 568, comma 5, mutuando il concetto civilistico di «volontà oggettiva». La ratio connessa all'introduzione di tale norma è stata quella di consentire il «salvataggio», per così dire, di un mezzo sostanzialmente idoneo a produrre gli effetti suoi propri, ma formalmente inadatto a tale fine.

    Si tratta, invero, di un tema non nuovo al giudice di legittimità.

    Infatti, prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di rito, la suddetta problematica era stata al centro di un vivo dibattito dottrinario, più ancora che giurisprudenziale, in cui si era fatto spesso ricorso ad istituti tipici del diritto civile, per far fronte alla lacuna della normativa processuale penale in materia.

  2. - In particolare, anteriormente al più volte citato art. 568, comma 5, c.p.p. 1988, la dottrina si era divisa in ordine all'ammissibilità di una «conversione» (o di altro fenomeno di manutenzione, come si dirà), elaborando tre diverse soluzioni interpretative.

    A fronte di un orientamento assolutamente rigorista nell'esclusione di tale possibilità 2, se ne ponevano uno dichiaratamente favorevole all'applicazione dell'istituto in esame 3 ed uno, per così dire, intermedio, che ricercava ora nell'interpretazione delle dichiarazioni di impugnazione secondo i principi generali del negozio giuridico 4, ora nel canone della conservazione dei valori giuridici 5, la ragion d'essere di questa operazione di mantenimento dell'atto impugnativo.

    Per sostenere le ragioni dell'esclusione, alcuni autori facevano perno sostanzialmente su due principi: quello di tassatività dei mezzi di impugnazione e quello della natura formale degli atti processuali.

    In ordine al primo, si evidenziava come il dato testuale - l'art. 190 dell'abrogato codice di rito - ammettesse l'impugnazione soltanto con i mezzi di gravame consentiti dalla legge, a pena di inammissibilità.

    A nulla rilevava, infatti, che una parte manifestasse semplicisticamente una generica volontà di impugnare un provvedimento, laddove tale volontà non si estrinsecasse, poi, nei mezzi predisposti dall'ordinamento. Un'impugnazione priva della veste sua propria sarebbe stata, quindi, considerata tamquam non esset 6.

    La natura formale dell'atto di impugnazione, inoltre, avrebbe ulteriormente escluso ogni rilevanza pratica all'atto che, appunto, fosse stato privo dei requisiti richiesti dalla legge. Ciò in virtù del preciso onere per la parte di conoscenza della disciplina legislativa di riferimento, non potendosi ritenere scusabile l'errore circa il mezzo di impugnazione da adottare 7.

    Alla luce di queste teorizzazioni, pertanto, il citato istituto della conversione, tipico dei negozi giuridici invalidi, doveva ritenersi eccezionale e come tale non suscettibile di analogia, stante la differenza sostanziale tra un atto da ritenere nullo ed uno da considerare inesistente, quale era, appunto, l'impugnazione erroneamente denominata.

    Per meglio chiarire le suesposte conclusioni, pur limitandosi a brevi cenni sul punto, va detto che il diritto civile sancisce, come è noto, già a livello codicistico, il principio della «conservazione dei contratti». Con tale locuzione si fa riferimento a quel fenomeno interpretativo che valorizza il «massimo significato utile» di ogni atto giuridico 8. Si tratta, in effetti, di un fondamento di tutto il nostro ordinamento, comune anche ad altre legislazioni vigenti, basato sia sull'ipotetica serietà di una dichiarazione di volontà 9, sia sul generale principio di economia dei negozi giuridici. A riprova di tutto questo, l'art. 1367 c.c. valorizza il significato intrinseco di un negozio giuridico, di talché sia dato alla legge di ricavare un'utilità da ogni atto di autonomia privata, quand'anche la stessa sia celata sotto forme inidonee astrattamente al raggiungimento dello scopo prefissato. Chiaramente, il limite di tale operazione ermeneutica rimane pur sempre la volontà delle parti; diversamente, infatti, il legislatore avrebbe ipotizzato una vera e propria forma di «negoziazione imperativa».

    Un corollario diretto del principio di conservazione dei negozi giuridici è, poi, il fenomeno della «conversione» degli stessi. Si tratta di quel procedimento mediante il quale da una fattispecie negoziale invalida si ricava un negozio valido, che, pur diverso nella forma rispetto a quello predisposto dai soggetti, miri, tuttavia, al raggiungimento del medesimo scopo pratico. In tal senso, si è detto 10, il negozio invalido dà vita e pone le fondamenta del negozio valido.

    È esso stesso parte di un «procedimento negoziale» (mutuando un'espressione tipica del diritto amministrativo), che si sviluppa per fasi. Ogni tassello di questo iter consente, cioè, il perseguimento del risultatoPage 412 utile, vale a dire l'efficacia di un atto geneticamente claudicante.

    Tale istituto trova un riconoscimento esplicito generale nell'art. 1424 c.c., che, a proposito del contratto, ammette la trasformazione di una manifestazione di volontà inesatta in una idonea alla produzione degli effetti giuridici voluti dai contraenti. Perché ciò avvenga il legislatore ha, però, precisato che, dal punto di vista oggettivo, il negozio deve avere in sé i requisiti di forma e di sostanza di un negozio differente, nonché, dal punto di vista soggettivo, che si possa presumere che le parti avrebbero dato vita al diverso negozio (quello efficace), laddove avessero percepito, la nullità di quello effettivamente concluso. Guardando al fine pratico, cioè, si deve ritenere che la volontà delle parti sia stata in qualche modo inficiata da un errore-ostativo, quasi che, nel ricorrere ad uno strumento giuridico, le stesse parti si siano «espresse», per così dire, con un mezzo tecnico inesatto.

    Tale precisazione pone in risalto la voluntas delle parti e la colloca a base della conversione stessa. Parte della dottrina 11 ha, infatti, ritenuto che sia questa in effetti la «chiave di volta» del fenomeno in esame. L'attenzione costante all'interesse dei privati porta a ritenere imprescindibile il vaglio della reale volontà degli stessi, anche al fine di evitare abusi e forzature da parte degli interpreti del diritto.

    Di segno opposto, invece, si rivela quell'opzione dottrinaria 12 che privilegia la «volontà oggettiva» e che, guardando alla compatibilità degli strumenti adottati, tributa alla legge il potere di convertire e di salvare così il negozio nullo. È a questa teoria oggettiva che il codice civile del 1942 sembra rifarsi. La menzione alla volontà presunta sembrerebbe piuttosto configurare una fictio in senso giuridico. Si attua, in pratica, una sorta di giudizio ipotetico - ciò che in dottrina è stato efficacemente indicato con il concetto di «futuribile» 13 - che null'altro è se non un «giudizio di prognosi postuma», applicato al diritto civile. In questo modo il giudice, preso atto della rispondenza dei parametri oggettivi, può automaticamente procedere ad una conversione, ridefinendo e riqualificando il negozio affetto da nullità.

    Va precisato, inoltre, che, benché la norma sia riferita al contratto, si ritiene oggi comunemente che la stessa vada estesa (come molte altre disposizioni dell'impianto codicistico) a tutti quei negozi giuridici, affetti dal vizio della nullità, suscettibili di essere «trasformati» in differenti negozi validi.

    Si tratta, però, di capire se ed in che misura, in assenza di una disciplina in materia, fosse possibile estendere questi principi anche all'ambito del processo penale.

    In vero, si è già detto dell'impostazione contraria a tale interpretazione analogica; tuttavia, non sono mancate voci autorevoli in dottrina che, muovendo dalla critica alla soluzione prospettata, hanno ipotizzato l'ammissibilità dello strumento della conversione, dando vita a quell'orientamento favorevole...

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