Fatto illecito e pretese risarcitorie: I limiti posti dalla cassazione

AutoreMaurizio De Giorgi
CaricaAvvocato, Foro di Lecce
Pagine467-470

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@1. Premessa

Oggetto della decisione in esame, recentemente adottata dalla terza sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, sono le diverse voci di danno risarcibile in conseguenza di un evento lesivo, posto in essere a seguito della condotta rimproverabile di terzi, che abbia inciso negativamente sia sulla sfera patrimoniale, che su quella personale, dei soggetti danneggiati.

Nella specie, la Suprema Corte, nel respingere il ricorso proposto da talune persone vittime di un sinistro stradale, ha reputato corretto l'argomentare dei giudici della Corte territoriale (Corte di appello di Perugia, sentenza n. 274 del 18 settembre 2000) verso la cui pronuncia era stato proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi dei quali, può anticiparsi sin d'ora, taluni sono stati dichiarati inammissibili, poiché tendevano a conseguire un nuovo giudizio sul fatto, altri del tutto infondati in punto di diritto.

@2. I motivi del ricorso e il decisum della Suprema Corte

Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti sostenevano la tesi secondo la quale i giudici di merito, erroneamente, avevano omesso di riconoscere in favore di uno di loro - poi deceduto nelle more del giudizio - il danno emergente quando invece, a loro dire, l'esistenza di siffatto danno era provato in atti.

In particolare, il Collegio giudicante avrebbe potuto procedere alla liquidazione equitativa di tale danno poiché se da un lato talune spese erano documentate, dall'altro, diverse spese risultavano essere difficilmente documentabili.

In particolare, i ricorrenti sostenevano ancora che dagli atti risultava la distruzione del veicolo sul quale viaggiava quell'infortunato poi, come detto, deceduto nelle more del giudizio e che il valore di tale mezzo rientrava nelle cosiddette «nozioni di fatto» del giudice.

In merito a tale motivo di doglianza, la Suprema Corte ritiene che la sentenza della Corte territoriale correttamente abbia fatto applicazione del principio secondo cui il danno per le spese sostenute necessariamente dal danneggiato in conseguenza di un incidente stradale costituisce una voce del danno patrimoniale. Ne deriva, di conseguenza, che ricade sul medesimo soggetto danneggiato l'onere di provare i costi effettivamente sopportati (Cass. civ., sent. 8 aprile 2003, n. 5504).

Nella specie, quindi, attraverso il riferimento ad una supposta difficoltà di provare tali costi, i ricorrenti avevano introdotto nel giudizio di legittimità una valutazione di fatto in quanto tale, come noto, del tutto estranea rispetto agli schemi propri di tale giudizio.

Un cenno poi merita la singolare pretesa dei medesimi ricorrenti di far rientrare nelle cosiddette nozioni di fatto di comune esperienza del giudice anche quella inerente alla determinazione del valore del mezzo andato danneggiato, o addirittura distrutto, a seguito dell'incidente stradale.

È noto, in proposito, l'orientamento sostenuto dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sent. 21 maggio 2004, n. 9705) secondo il quale il notorio cui allude il secondo comma dell'art. 115 c.p.c. (rectius le «nozioni di fatto») corrisponde alle cognizioni comuni e generali in quanto tali patrimonio comune della collettività nel tempo e nel luogo in cui viene adottata la decisione senza che questa, quindi, necessiti del ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici.

Con il secondo motivo di ricorso si argomentava in ordine al danno da invalidità permanente sostenendosi, tra l'altro, che quando si tratti di postumi superiori al dieci per cento sussiste sempre la presunzione dell'incidenza apprezzabile dell'invalidità sulla capacità di guadagno del danneggiato.

In merito, la Corte effettua un distinguo tra la riduzione della capacità lavorativa generica, da un lato, e l'ipotesi della riduzione della capacità lavorativa specifica dall'altro.

È cioè a dire, nell'ipotesi in cui si verifichi un illecito lesivo dell'integrità psico-fisica di una persona ne deriva la sussistenza di un danno biologico che, in quanto tale, deve essere provato nel caso concreto e dà diritto al risarcimento indipendentemente dal fatto che ne sia derivata anche una perdita patrimoniale.

Pertanto, risulta essere risarcibile sotto il profilo del danno biologico la riduzione della capacità lavorativa generica in quanto tale e non per l'effetto di un mancato guadagno.

Se, invece, alla riduzione della capacità lavorativa generica si associa una riduzione della capacità lavorativa specifica allora, quando quest'ultima comporti effettivamente una riduzione della capacità di guadagno, tale riduzione integra gli estremi del danno patrimoniale.

In altre parole, secondo l'argomentare della Suprema Corte, è erroneo ritenere una sorta di automatismo tra l'invalidità permanente e la presunzione del danno da lucro cessante, potendo quest'ultimo derivare, come visto, esclusivamente da invalidità che comportino, in concreto, la riduzione della capacità lavorativa specifica.

Il relativo onere della prova grava sul soggetto danneggiato il quale è chiamato a dimostrare - sia pur potendosi avvalere di presunzioni - che lo stesso svolgeva, o comunque presumibilmente avrebbe potuto svolgere in futuro, un'attività lavorativa produttiva di reddito (Cass. civ., sent. 11 agosto 2000, n. 10720).

Conclusivamente, l'adito Supremo Collegio ritiene la correttezza della sentenza adottata dalla Corte territoriale che nulla aveva liquidato a titolo di danno patrimoniale sulla base delle...

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