Il danno esistenziale

AutoreEdgardo Colombini
CaricaIspettore assicurativo, Pino Torinese
Pagine491-501

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Da ben oltre un decennio si parla di danno esistenziale senza che peraltro si possa affermare l’esistenza di un suo concorde riconoscimento sia in dottrina che in giurisprudenza: a quanti ne contestano infatti una possibile individuazione si contrappone la corrente di pensiero che lo considera come una vera e propria voce di danno risarcibile, vuoi autonomamente vuoi all’interno del danno non patrimoniale.

E tale è la confusione in proposito – visti i discordanti orientamenti nell’ambito della stessa Corte di cassazione – che, con ordinanza 25 febbraio 2008, n. 4712, la III sez. (in questa Rivista 2008, 613) ha ravvisato l’opportunità che le Sezioni Unite fornissero una interpretazione univoca sugli aspetti morfologici e funzionali del danno non patrimoniale, attesa «la esistenza di un ormai irredimibile contrasto di giurisprudenza insorto in seno a questa stessa sezione sul tema del c.d. danno esistenziale».

Netta in proposito, sulla linea negazionista, era stata la decisione della medesima sezione del 20 aprile 2007, n. 9510 (in questa Rivista 2007, 1164) nella quale era dato di leggere che «il danno non patrimoniale deve essere risarcito non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche nei casi di lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti (quali la salute, la famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero) ai quali va riconosciuta la tutela minima che è quella risarcitoria; ne consegue che non può formare oggetto di tutela una generica categoria di “danno esistenziale” nella quale far confluire fattispecie non previste dalla norma e non ricavabili dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c. Pertanto, qualora, in relazione ad una lesione del bene della salute, sia stato liquidato il danno biologico, che include ogni pregiudizio diverso da quello consitente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito, ivi compresi il danno estetico e il danno alla vita di relazione, non v’è luogo per una duplicazione liquidatoria della stessa voce di danno, sotto la categoria generica del “danno esistenziale” (in senso conforme Cass. 11761/06 e 15022/05)» (ibid. p. 1167).

Questo era l’orientamento anche nella giurisprudenza di merito. Così infatti si era pronunciato in proposito il Tribunale civile di Napoli (sez. II, 10 febbraio 2004, in questa Rivista 2004, p. 525): «Poiché, in base al più recente orientamento giurisprudenziale, il danno non patrimoniale è destinato a ristorare non solo il pretium doloris derivante dalla commissione di un reato, ma anche ogni diveso pregiudizio ai valori della persona umana alla luce dei principi costituzionali, ne deriva che non può esservi più spazio per una autonoma figura di danno esistenziale rientrando tale categoria nella nozione ampliata di danno non patrimoniale».

Nello stesso senso la sentenza del Tribunale civile di Bologna (sez. III, 12 febbraio 2004, n. 460, in questa Rivista 2004, 893) nella quale si affermava che «per quanto riguarda il preteso danno esistenziale, questo giudicante non ritiene configurabile tale tipologia di danno: infatti il c.d. danno esistenziale è stato definito quale “offerta al diritto di ogni persona ad un’esistenza serena” (così Trib. Torre Annunziata sent. 25 marzo 2002), oppure quale “danno alla vita di relazione derivante dall’ingiusta menomazione dell’integrità familiare” (così Trib. Treviso, ord. 30 luglio 2001); peraltro dalla stessa lettura dei citati provvedimenti riesce difficile comprendere come il concreto pregiudizio che si intenda risarcire quale danno esistenziale possa distinguersi dal danno morale ovvero dal danno biologico. Infatti, da un lato nella sentenza del Tribunale di Torre Annunziata anche nella individuazione del danno esistenziale si fa riferimento ai concetti di dolore, commozione, rabbia, i quali sono meglio riconducibili alla nozione di danno morale, mentre il concetto di danno alla vita di relazione di cui all’ordinanza di Treviso è notoriamente ricompreso nella nozione di danno biologico, come delineatasi in giurisprudenza (cfr. Cass. 12741/99, 6023/01), in quanto riconducibile ad una menomazione fisica, anche se di natura psichica. Proprio la difficoltà di distinguere il danno esistenziale dal danno morale e dal danno biologico conferma la pericolosa vaghezza concettuale del primo, né tale conclusione risulta in contrasto con l’affermazione secondo cui devono essere risarciti tutti i danni derivanti dalla lesione di diritti di rilevanza costituzionale, in quanto tale affermazione risulta del tutto condivisibile laddove si riferisca a diritti soggettivi perfetti, di indubbia rilevanza costituzionale ex art. 2 della Costituzione, quali i diritti della personalità umana, come il diritto alla reputazione, all’onore, all’immagine, alla riservatezza (cfr. Cass. 6507/01), nonché, ex art. 32 della Costituzione, il dirittoPage 492 alla salute (cfr. Corte cost., sent. 184/86): viceversa, appare di difficile autonoma rilevanza costituzionale una sorta di “diritto ad un’esistenza serena” proprio per il carattere indeterminato sopra evidenziato. A questo proposito, le sentenze della Suprema Corte nn. 8827 e 8828 del 2003 (pubblicate rispettivamente in Arch. civ. 2004, 162 e in questa Rivista 2003, 1060), dopo aver esteso la nozione di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. alla suddetta categoria dei danni da lesione di valori costituzionali inerenti alla persona (quali il danno da perdita o sconvolgimento del rapporto parentale, tutelato dagli artt. 29 e 30 Costituzione) – danni in tal modo non più ricondotti al c.d. tertium genus (rispetto al sistema bipolare del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.) –, sottolineano come non sia proficuo ritagliare, all’interno di tale generale categoria, specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (così letteralmente sent. 8828/03 punto 3.1-4.3): pertanto, anche tali sentenze confermano una motivata diffidenza verso la categoria del c.d. danno esistenziale, mai citato nelle sentenze medesime, anche se riconosciute nelle sentenze di merito impugnate».

Il Tribunale di Bologna che già in precedenza (sez. III, 30 ottobre 2003, n. 5119) aveva spiegato come, in relazione al c.d. danno esistenziale, «il riconoscimento in tempi non recenti del c.d. danno alla salute ha prodotto una rivoluzionaria innovazione dell’art. 2043 c.c. che rende detto articolo la norma base e fondante di ogni responsabilità civile in collegamento a tutti i diritti riconosciuti dall’ordinamento e che relega il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. a quello c.d. morale rappresentato dalle sofferenze fisiche e psichiche. Le disposizioni codicistiche afferenti i criteri liquidatori (art. 1223 richiamato dall’art. 2056 c.c.) da adottare nella determinazione del risarcimento non ostano all’interpretazione evolutiva di cui si è detto ove per “perdita subita” si intenda non solo la perdita puramente economica, ma ogni compressione o lesione di un diritto soggettivo riconosciuto dall’ordinamento. In altre parole, tale compressione o lesione integra ex se, autonomamente dalle eventuali conseguenze di carattere patrimoniale, un danno risarcibile ex art. 2043 c.c. In astratto, a prescindere per ora dalla fattispecie oggetto della presente causa, quanto sin qui affermato induce questo giudice ad escludere la configurabilità di un c.d. danno esistenziale genericamente individuato come rinuncia da parte del soggetto ad attività in precedenza esercitate. Non tutte le attività sono dall’ordinamento ammesse e se la qualità di vita di un individuo deriva dall’esercizio di una attività illecita non si vede proprio come considerare danno risarcibile la procurata impossibilità per il soggetto di compiere tale attività. Nella valutazione del danno ingiusto non si può cioè prescindere dall’individuazione di quelle attività che rappresentano il contenuto di specifici diritti soggettivi riconosciuti all’individuo dall’ordinamento giuridico. Tutte le norme costituzionali, ivi compreso l’art. 2, hanno un preciso contenuto di diritti soggettivi, quali il diritto all’assistenza morale e materiale tra familiari, il diritto alla salute, il diritto alla manifestazione del proprio pensiero, il diritto di libertà e così via e tutti tali diritti trovano un limite nei corrispondenti diritti dei consociati. L’onere di allegazione e prova relativo alla lesione di un diritto soggettivo non può essere disatteso con il riferimento ad un non meglio identificato danno esistenziale che, peraltro, per il frequente riferimento fatto nelle richieste risarcitorie ad uno sconvolgimento psicologico del soggetto è, in altri casi, del tutto e per tutto sovrapponibile o al danno morale o al danno biologico da sempre inteso nell’ampia accezione di alterazione dell’integrità psicofisica della persona. Concorda questo giudice con l’impostazione contenuta nella sentenza del Tribunale di Venezia secondo cui il danno biologico tutela il valore uomo in sé, nel complesso delle sue funzioni e, quindi, anche nell’attitudine del soggetto a svolgere attività familiari, sociali e culturali. Ogni alterazione dell’integrità psicofisica della persona è danno alla sua salute, e quindi verosimile compromissione delle attività ricreative e genericamente non lucrative dell’individuo risarcita proprio con il riconoscimento del c.d. danno biologico accanto all’eventuale danno patrimoniale scaturente dalla compromissione di attività redditizie».

Ma quando – pur arrivando poi a conclusioni negative sulla esistenza autonoma di un danno esistenziale – si parla di «compromissione delle attività ricreative e genericamente lucrative dell’individuo» (ut supra) e si ricorda che «nella valutazione del danno ingiusto non si può prescindere dalla indivividuazione di quelle attività che rappresentano il contenuto di specifici diritti soggettivi riconosciuti all’individuo dall’ordinamento giuridico» e che «tutte le norme costituzionali, ivi compreso l’art. 2...

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