Il “Concorso di colpa” del trasportato

AutoreEdgardo Colombini
CaricaIspettore assicurativo, Pino Torinese
Pagine757-762

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Sembra, a prima vista, opinabile che un trasportato su un automezzo possa concorrere alla determinazione di un evento dannoso di cui lui stesso è vittima: costui è infatti a bordo di un veicolo affidato all’altrui guida che appare la sola causa di un sinistro avvenuto per colpa esclusiva o in concorso dei conducenti coinvolti. È in quest’ottica che l’AGRIZZI (“Le cintura di sicurezza ed il 2° comma dell’art. 2697 c.c.”, in questa Rivista 2000, 643), in materia di cinture di sicurezza, scriveva a suo tempo: “è giunto il momento di porre la parola fine alla pretesa dei responsabili dei sinistri che la mancata utilizzazione da parte di un utente di un veicolo della cintura di sicurezza o del casco o degli altri mezzi idonei a salvaguardare la sua incolumità (violazione degli artt. 171 e 172 c.s.), nel caso di incidente provocato da altrui colpa, comporti, per questo solo, un concorso colposo del leso nel sinistro, o la riduzione del risarcimento dovutogli dal responsabile. Quello che va rilevato con una certa meraviglia è che alla ripulsa di questa pretesa, che si intuiva subito essere una mera speculazione, illegittima e ingiusta, si sia arrivati solo per la rigorosa applicazione delle norme ordinarie ed elementari del nostro codice civile e senza bisogno di ricorrere alle grandi tematiche di fondo di ordine costituzionale e dei principi fondamentali del diritto”.

Era partito da lontano, questo Autore, e cioè da considerazioni di carattere costituzionale avendo sostenuto sin dal 1996 (“Irrilevanza, ai fini della responsabilità del fatto illecito, delle violazioni da parte del danneggiato di norme a lui dirette e finalizzate esclusivamente alla sua incolumità”, in questa Rivista 1996, 3) “l’irrilevanza sulla responsabilità del fatto illecito della violazione da parte del danneggiato delle norme solo a lui dirette e dettate al solo fine del suo stesso bene, come, ad esempio, l’obbligo di portare il casco protettivo del capo per i motociclisti e l’obbligo di usare la cintura di sicurezza, o altri dispositivi simili, per gli autisti e i passeggeri dei veicoli o dei natanti. L’imposizione di articoli di legge, con relativa sanzione, indirizzata solo a proteggere la stessa persona alla quale è diretta, ha carattere certamente anomalo, poiché incide nei diritti fondamentali del cittadino, ledendo i principi stessi della sua libertà e creando non superabili problematiche d’ordine costituzionale. Invero, ogni divieto o imposizione di carattere penale, contravvenzionale, amministrativo, disciplinare o civile, sono legittimi solo se rivolti verso il cittadino allo scopo di proteggere gli altri cittadini dai suoi comportamenti che potrebbero ledere i diritti di questi. Infatti, nei paesi democratici, l’uomo è libero e la sua libertà è assoluta, avendo limite solo nella presenza della libertà degli altri cittadini, che verrebbe danneggiata, violata, ostacolata, dall’espandersi incontrollato di essa. Perciò ogni divieto, ogni limite alla libertà individuale sono giustificati solo se tendono a tutelare gli altri”. Considerazioni tutte che, quando si scontrano con la cruda realtà della frenetica vita di ogni giorno, non possono non mostrare la loro fragilità e, talvolta, l’inconsistenza delle accuse rivolte alle compagnie di assicurazione.

È peraltro vero, come scriveva lo stesso AGRIZZI (“Le cinture di sicurezza ed il secondo comma dell’art. 2697 c.c.”, ivi, 2000, 643) “che è sempre stato escluso da tutti che si possa parlare di concorso nel sinistro per la mancata adozione della cintura o del casco da parte del danneggiato: invero è pacifico che non c’è alcun nesso di causalità tra l’adozione della cintura o del casco e l’accadimento di un incidente stradale, il quale dipende solo dalla violazione delle norme di comportamento che regolano la circolazione. È ridicolo ed assurdo solo pensare che la violazione degli artt. 171 e 172 c.s. possano essere posti in nesso causale con la dinamica e le cause di un incidente”.

La questione deve cioè essere considerata da un altro punto di vista - come finisce col prospettare lo stesso AGRIZZI: se si vuol dare una spiegazione logica a quanto avviene ormai praticamente ogni giorno nella realtà delle liquidazioni risarcitorie si deve incominciare ad utilizzare una diversa terminologia. Non è invero possibile nella realtà dei fatti - e la circostanza dovrebbe risultare pacifica - che un sinistro sia causato dalla mancata utilizzazione della cintura di sicurezza da parte di un trasportato. Un sinistro si verifica o perché il veicolo su cui viaggia il passeggero viene a collisione con altro automezzo o perché finisce fuori strada con o senza responsabilità di terzi estranei e/o dell’ente proprietario della strada percorsa. Con maggior precisazione terminologica si può invece dire che il trasportato, a seguito del mancato uso della cintura di sicurezza, ha aggravato o addirittura causato le lesioni personali conseguenti all’incidente della circolazione: il sinistro sta a monte, le lesioni sono la conseguenza del sinistro ed è sulla conseguenza - non sul sinistro in sé ePage 758 per sé - che gioca la mancata utilizzazione della cintura di sicurezza.

Ciò premesso - per sgomberare il campo da inutili controversie su ipotetici concorsi di colpa di un trasportato nella causazione di un sinistro al cui verificarsi non ha affatto contribuito - viene ora da considerare se abbia o meno fondamento la riduzione dell’importo del risarcimento del danno subìto dal trasportato medesimo nell’incidente verificatosi.

Secondo l’AGRIZZI ciò sarebbe da escludere facendo riferimento al comma 2 dell’art. 2597 c.c.. Invero, una volta provato che l’infortunato non si era preoccupato di allacciare la cintura di sicurezza, per l’AGRIZZI (ibid. pag. 643/2000) risulterebbe impossibile accertare che se il danneggiato avesse avuto la cintura di sicurezza allacciata non avrebbe riportato le lesioni subite o le stesse sarebbero state di minore gravità. Secondo questo Autore (ibid. pag. 543) “tale onere di prova che discende dal secondo comma dell’art. 2697 c.c., non può essere assolto dall’assicuratore o dal responsabile chiedendo una perizia medico-legale d’ufficio. Invero, in questo caso, la perizia medica d’ufficio non costituisce affatto una prova, come quando, invece, accerta le reali lesioni subite da un leso in un incidente veramente accaduto, ove il Ctu verifica un fatto reale e preciso, attestandone come incaricato di un pubblico servizio (come un notaio) la veridicità e misurandone con un metro certo e motivato (cioè la tabella dell’Inail dell’invalidità permanente generica) le conseguenze reali, cioè il grado di invalidità. Invece, se al Ctu venisse richiesto di esprimere un parere su quali lesioni avrebbe potuto riportare il leso senza cintura o senza casco (qualora li avesse utilizzati: ndr.), non accerterebbe un fatto, ma verrebbe chiamato solo ad esprimere un...

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