Giustizia penale negoziata, poteri dispositivi delle parti e funzione del giudice

AutoreEnrico Campoli
Pagine123-127

    Testo della relazione relativo all'incontro di studio organizzato dal CSM nei giorni 8-10 ottobre 2001.


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I poteri dispositivi delle parti, la prova e l'intervento del Giudice nelle indagini e nell'udienza preliminare: tra acquiescenza, modello accusatorio e nuove prospettive inquisitorie.

Non posso nascondere che quando mi è stato comunicato il titolo della relazione che avrei dovuto tenere dinanzi a Voi la mia prima, emozionale, reazione è stata quella di provare un senso di smarrimento: per come esso è impostato neanche la più elevata capacità di sintesi mi avrebbe permesso di prospettare in modo concreto le questioni che in materia si affollano.

Credo che il Comitato Scientifico del Consiglio Superiore della Magistratura non me ne vorrà se mi permetto di modificare il titolo della relazione nel modo sopra menzionato ritenendo di poter in questo modo ottenere, a fronte di un paradossale allungamento dello stesso, un effetto circoscrivente 1.

Potere dispositivo delle Parti e diritto alla prova rappresentano concetti l'uno concentrico all'altro: il primo raffigura le potenzialità affidate alle Parti di attivare, (ovvero non attivare), i vari mezzi processuali messi a loro disposizione dal codice di procedura penale, - non ultimi quelli definitori dei riti speciali -, il secondo la facoltà delle stesse di accusare e difendersi provando, disponendo, appunto, dei poteri di prova anch'essi concessi loro dal codice.

Entrambi i concetti evocano, dunque, l'ambito dei poteri riconnessi dal codice alle Parti, uno in assoluto, l'altro relativo allo specifico tema delle prove.

Riguardo al primo aspetto di particolare rilevanza è la questione della sussistenza o meno della figura giuridica dell'acquiescenza nell'ambito del processo penale 2, in particolare della possibile acquiescenza in relazione ai diritti disponibili delle Parti nell'ambito processuale; relativamente al secondo da un lato occorre porsi la questione dei criteri della rilevanza e dell'ammissibilità delle prove e dall'altro quella di stabilire a chi sia affidato il compito di prospettare l'ipotesi ricostruttiva del fatto.

È di queste ultime due questioni che dobbiamo in questa sede occuparci, - ed in particolare di esse in relazione sia alla fase delle indagini preliminari che a quella dell'udienza preliminare -, ma mi sia consentito fare un fugace cenno alla figura dell'acquiescenza tenuto conto che essa costituisce un fondamentale strumento di conoscenza generale anche in ordine al potere dispositivo delle Parti in tema di prove.

Per «natura» essa (l'acquiescenza) necessita della completa libertà di autodeterminazione delle Parti rispetto all'esercizio di un diritto o di una facoltà: il Giudice ne è coessenzialmente, strutturalmente estraneo in quanto anche laddove si determina discrezionalmente in ordine ad una richiesta congiunta delle Parti deve sempre valutarne la conformità alle espresse previsioni normative, cioè in obbedienza ad un canone ad Egli esterno.

Potere dispositivo ed acquiescenza costituiscono l'interfaccia della medesima questione, in quanto solo in presenza di un potere è possibile esercitare la rinuncia all'esercizio di una facoltà riconnessavi.

L'acquiescenza ha quale ambito esplicativo la produzione degli effetti di quello specifico comportamento assunto dalla Parte, atteso che prestandovi o meno accettazione, - in quanto titolare del diritto dispositivo avversativo -, ne accetta le conseguenze processuali.

Oggetto dell'atto dispositivo non è il diritto sostanziale pregiudicato da quello specifico provvedimento bensì il non aver azionato i rimedi concessigli dalla legge per ottenere un determinato effetto processuale.

Prestando fede alla promessa di brevità del cenno, ma rendendolo più chiaro attraverso alcuni esempio, possiamo indicare quale emblematica rappresentazione del non esercizio del potere dispositivo la rinuncia della Parte alla facoltà di eccepire una nullità relativa.

Com'è noto, tale rinuncia consente la sopravvivenza di un atto processuale viziato, cioè pur in presenza di una situazione che il sistema fa rientrare nella patologia dell'atto la Parte decide di non azionare il potere dispositivo che gli consente di cancellarne gli effeti processuali.

Ed ancora, a dimostrazione di come il binomio potere dispositivo/acquiescenza attraversi trasversalmente le fasi processuali, basti qui rammentare che:

- lo stesso esercizio dell'azione penale da parte del P.M., pur nelle sue obbligatorie risultanze può esserne oggetto, in quanto, ad esempio, la richiesta di svolgimento dell'udienza preliminare costituisce tuttora, nonostante la riforma della L. 479/99, una opzione sottoposta al vaglio (all'acquiescenza) dell'imputato, il quale, ex art. 419, quinto comma, c.p.p. può rinunciarvi così come alla volontà del primo di non fare svolgere, purché avallata dal Giudice per le indagini preliminari, ex artt. 456 e ss. c.p.p., (giudizio immediato) può far seguito l'innesco da parte del secondo di uno dei riti alternativi (art. 458 c.p.p.) 3;

- è prevista normativamente la possibilità di esercitare/non esercitare, (o sinanche modulare) il diritto di impugnazione 4;

- e, per tornare, al tema della discussione, cioè al potere dispositivo delle Parti in tema di prova, è sancita la facoltà dinanzi ad un accertamento tecnico irripetibile di formulare/non formulare riserva di promuovere incidente probatorio 5.

Ritornati, attraverso quest'ultimo esempio, al tema centrale della nostra analisi, e cioè al potere dispositivo delle Parti in tema di prova, occupiamocene, qui di seguito, nelle due fasi a cavallo dell'esercizio dell'azione penale: le indagini preliminari e l'udienza preliminare.

Apparentemente, - ma potremmo dire istituzionalmente -, prova ed indagini preliminari dovrebbero essere termini antitetici in quanto, ce lo siamo sentiti ripetere all'infinito, quasi in una sorta di tormentone didattico, che «la prova si acquisisce in dibattimento nel contraddittorio tra le Parti», che «le indagini sono finalizzate al mero ottenimento della vocatio in ius», al punto tale che il codice di procedura pe-Page 124nale del 1989 dava significativamente alle anticipazioni probatorie nelle indagini preliminari la «sinistra» definizione di incidenti 6: solo un «incidente» poteva dissacrare il tabù costituito dal binomio prova = dibattimento.

Per essere ancora più concreti, è sufficiente ricordare che gli atti raccolti nelle indagini preliminari, quanto cioè acquisito dalle Parti nel corso delle stesse, fanno significativamente prova o meno a seconda del fatto che li si valuti nel rito abbreviato ovvero nel dibattimento: addirittura, mentre precedentemente alla riforma del 1999, affinché essi costituissero prova nel rito abbreviato v'era necessità di un negozio concluso dalle Parti, ed avallato dal Giudice, oggi è sufficiente che vi sia la mera volontà dell'imputato, titolare di un potere dispositivo che allo stesso tempo comporta trasformazione del rito e ratifica delle - (acquiescenza alle) - acquisizioni probatorie svolte nelle indagini preliminari.

Ebbene, può senz'altro affermarsi che in seguito alle innovazioni della L. 479/99 7 nulla è più come prima sebbene, usando una parabola di Turgenev, occorra constatare che «il vecchio è morto, ed il nuovo non è ancora nato».

Ma andiamo per ordine.

Sosteneva WITTGENSTEIN, che: «Tutto ciò che possa essere pensato chiaramente. Tutto ciò che possa esser formulato può formularsi chiaramente» 8: in campo probatorio questa petizione filosofica ha sempre avuto difficoltà applicative ma lo sforzo espositivo deve necessariamente tendervi.

Abbiamo prima fatto cenno alla circostanza che le due questioni che occorre porsi in merito al rapporto tra potere dispositivo delle Parti e diritto alla prova sono in assoluto:

1) quella della rilevanza e dell'ammissibilità delle prove;

2) quella dello stabilire a chi sia affidato il compito di prospettare l'ipotesi ricostruttiva del fatto.

Su queste due questioni ne ruotano a loro volta altre: in ordine alla prima quella della fondamentale distinzione tra processo inquisitorio e processo accusatorio, - a seconda del fatto se la prova viene acquisita dal Giudice d'ufficio e nel segreto delle indagini o in contraddittorio tra le Parti ed in forma pubblica -, e, riguardo alla seconda la distinzione tra processo inquisitorio e processo dispositivo in base alla circostanza del se il potere d'iniziativa probatoria è nelle mani del Giudice o delle Parti.

Senza entrare in questa sede nel merito della «guerra santa» tra modello inquisitorio e modello accusatorio, - tema questo di interessanti prospettive, mettendo esso in discussione differenti tradizioni culturali e concetti ideologici quali libertà ed autoritarismo -, può senz'altro affermarsi che mentre il canovaccio processuale delineato dal codice di procedura penale del 1930 tendeva a verificare l'ipotesi ricostruttiva del fatto formulata dal Giudice nel corso della istruttoria da Egli stesso condotta, in quello del 1989 esso, - e ciò sia per l'udienza preliminare che per il dibattimento -, era costituito dal contrapporsi delle diverse ipotesi ricostruttive formulate dalle Parti dinanzi al Giudice.

Il cd. metodo dialogico della formazione della prova, - senza che esso potesse mai sconfinare nel monopolio dispositivo delle Parti, atteso il principio di indisponibilità dell'oggetto del processo ricavabile dall'articolo 112 della Costituzione 9 -, si era ritenuto costituisse l'opzione tecnica preferibile per giungere ad un modello di verità.

In sintesi: nel codice di procedura penale del 1989 il rapporto tra Giudice e Parti era regolato, relativamente alla fase delle indagini preliminari ed a quella dell'udienza preliminare, da una netta opzione per il principio dispositivo ed effettivamente al primo era riconnesso una funzione esclusivamente di controllo 10.

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