Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine635-648

Page 635

@TRIBUNALE PENALE DI MONZA 30 novembre 2007. Pres. ed est. Anelli - Imp. O.L. (avv. Costantin)

Responsabilità da sinistri stradali - Colpa del conducente - Investimento di pedone - Area privata soggetta al pubblico transito - Applicazione delle norme del Codice della strada - Sussistenza - Conseguenze - Fattispecie in tema di sinistro mortale causato da quadriciclo non assicurato condotto da quindicenne non abilitato.

La disciplina del Codice della strada è applicabile anche ad un’area appartenente a privati se detta area è soggetta ad uso pubblico. In tal caso risulta operante la presunzione di colpa dettata dall’art. 2054 c.c. a carico del conducente del veicolo e la conseguente responsabilità del proprietario, nonché esercitabile l’azione diretta ex art. 18 L. n. 990/69 del danneggiato nei confronti dell’assicuratore del danneggiante. (Nella fattispecie si trattava di sinistro mortale avvenuto in area privata soggetta al traffico pedonale o veicolare e causato da quadriciclo non assicurato condotto da quindicenne non abilitato). (C.p., art. 589; c.c., art. 2054; nuovo c.s., art. 115; nuovo c.s., art. 119; L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 18) (1).

    (1) In senso conforme al primo capoverso della massima de qua, v. pur riferendosi al precedente Codice della strada, Cass. civ. 7 maggio 1992, n. 5414, in questa Rivista 1992, 1006. Sulla necessità che ricorra il presupposto della circolazione del veicolo su strada pubblica o su strada privata soggetta ad uso pubblico affinché sia applicabile la presunzione di colpa di cui all’art. 2054 c.c. a carico del conducente e la conseguente responsabilità del proprietario, v. Cass. civ. 26 luglio 1997, n. 7015, ivi 1997, 890; affinché il danneggiato da sinistro stradale abbia azione diretta nei confronti del responsabile, v. Cass. civ. 15 aprile 1996, n. 3538, ivi 1997, 38.

MOTIVI DELLA DECISIONE. – Nel pomeriggio del 23 aprile 2005, attorno alle ore 15.00-15.30, il signor CO. Li. di anni 80, si trovava in un terreno a destinazione agricola, ubicato in prossimità della sua abitazione (sita in via Treviso ...), posto tra le vie Libertà e Padova del Comune di Muggiò, intento a raccoglier cicoria ed altre verdure selvatiche. Più in là, discosti, ma sempre sullo stesso fondo, impegnati nella cura degli orti, si trovavano anche i suoi fratelli, Rino e Maria.

La descrizione dei luoghi, e segnatamente del luogo ove si trovava CO. Li. tutto preso nei suoi incombenti, non è di poco momento ai fini della decisione, sicché varrà la pena di offrirla da subito.

Orbene, l’appezzamento di terreno in questione – che diverrà teatro dell’evento mortale per cui è processo – è una vasta area agricola, di circa 8.000 mq., non edificabile, incolta, ubicata alla estrema periferia di Muggiò ai confini con il comune di Lissone (ma anche di Desio).

La consuetudine, l’incertezza dei confini, l’incuria della mano pubblica ed il disinteresse dei privati l’hanno trasformata in un’area “di tutti”, nel senso che chiunque può transitarci, tutti la possono attraversare senza divieti ed i residenti (o almeno taluni di loro tra cui i CO.) ne hanno lottizzato dei pezzettini per adibirli a orticelli di singole famiglie. In ciò “autorizzati” da precedenti “danti causa” che nessun titolo avevano per farlo se non per l’appunto l’uso continuativo e la consuetudine.

L’accesso (unico) al fondo in questione è posto al termine (a circa 30 mt. dal tratto asfaltato) di via Treviso ove il signor CO. viveva con la sua famiglia, ed inoltrandosi ci si trova a percorrere una fascia di terra battuta (dal piano viabile sconnesso) che – con un andamento circolare – contorna l’intero appezzamento di terreno.

È questo un percorso, delimitante la zona interna (piena di erbacce a parte le porzioni di orti), formatosi nel corso degli anni con il pubblico transito ed utilizzato per le sue caratteristiche morfologiche da ragazzi ed adulti appassionati di motocross. Non può dirsi un percorso particolarmente adatto né impegnativo o riservato ai più che abili ma, essendo interessato da tratti disomogenei e sconnessioni dovuti ad avvallamenti e buche, ben si comprende la sua elezione a “pista campestre”.

Il fondo non è delimitato da alcuna recinzione od ostacolo e, naturalmente, se ne ignora la proprietà, se pubblica, privata o mista; solo il ricordo, tramandato da chi vive in luogo da molti anni, lo riconduce ad una antica cava di sabbia poi abbandonata; il ché però non dice nulla sulla effettiva titolarità giacché le cave possono essere oggetto di concessioni (pubbliche) a favore di privati, sicché esaurita la destinazione estrattiva il terreno rimane al proprietario, pubblico o privato che sia.

Cosa qui sia stato non si sa; si può solo descrivere il luogo come una sorta di “terra di nessuno” che da tempo immemore è destinata al transito e all’uso di tutti.

Gli stessi CO., residenti da sempre, hanno scarsissime conoscenze su chi ne sia il proprietario (ammesso che non sia terreno demaniale), su chi abbia un eventuale ius excludendi (ammesso che taluno ce l’abbia), se l’uso pubblico sia il frutto di una prassi tollerata oppure il contrario; sconoscono insomma tutto delloPage 636 stato giuridico e – al pari degli altri – sanno solo dello “stato di fatto”.

È il caso, per esempio, di CO. Ma., figlio di Li., di anni 47, vissuto per i primi 30 anni della sua vita nella casa dei suoi genitori ed ora residente a non più di 200 mt. dal luogo che ha visto suo padre vittima dell’investimento e del quale null’altro ha saputo dire se non che: «... adesso è un’area dismessa... inizialmente era un’ex cava di sabbia che poi è stata chiusa, la maggior parte è stata, diciamo, reinterrata perché è stata ricoperta, però è sempre stato un luogo dove la gente con le moto, con le jeep o cosa... loro entrano... si divertono come possono e poi se ne vanno perché non c’è nessuno che, per dire, cura il posto o ne vieta la circolazione...»

Giudice: «... ma è un luogo pubblico, per quello che a lei consta? ...»

... non so se si intende pubblico e in che maniera, so che chi vuole entrare può entrare come vuole, però so che era un’area privata...

.

In realtà la conoscenza sul carattere “privato” dell’area è assai vaga e desunta dal ricordo di una antica recinzione giacché il teste prosegue: «... è sempre stato un po’ il problema di quella via, perché la via dove abitano i miei genitori è l’ultima casa in fondo alla via, [che] poi finisce..., tutti quelli che sanno che è la strada che finisce e lì scorazzano, fanno, si divertono perché l’importante era raggiungere questo campo perché all’interno di questo campo ...uno può fare quello che vuole...» (ud. 13 luglio 2007).

Analoga, nel senso di analogamente fumosa, è la conoscenza che ne hanno sua madre MA. L., vedova CO. (ibidem) e suo zio, CO. Ri.:

– la madre: «... la chiamano “la cava” e noi abbiamo gli orti lì... è di Lissone quel campo perché la mia casa è a confine con Muggiò, Lissone e Desio... io sono venuta qua nel ’61 e c’era questa cava ...prima non si poteva andare, era molle... ma adesso son passati tanti anni...». E più oltre dopo aver detto di non aver mai saputo di chi fosse la proprietà: «... il campo è sempre sotto Desio... un signore [che] coltiva(va) la terra che adesso non c’è più, è morto... quarant’anni fa ci ha detto: “ne volete un pezzetto?” che c’era tutta ghiaia... finisce l’orto e inizia il campo, sia da una parte che dall’altra... noi abbiamo questo pezzettino è Desio che ce l’ha dato questo signore, ma non c’entra niente con l’orto, quello che è successo ...».

– lo zio: «... una volta... c’era una cava che aveva [un proprietario]... si chiamava Bor di Lissone, era padrone lui. E dopo ha venduto e adesso non so più.... mio fratello era andato... a trovare qualche erbetta, sa, era primavera, a trovare qualche erbetta così...» (ud. 16 ottobre 2007).

Questo dunque, il teatro dei fatti con il sig. CO. Li. intento, nel pomeriggio del 23 aprile 2005, a cercare erbette nel campo.

Sopraggiungevano, forse attorno alle ore 15.00 o forse un po’ prima, a bordo di un furgone sul quale erano stati caricati i mezzi per fare cross, quattro persone, due adulti, O. L. (odierno imputato) e Da. (escusso come teste oculare) con i rispettivi figlioli: De., figlio del primo ed il piccolo BO., di 8 anni.

Dopo aver parcheggiato il mezzo dinanzi all’abitazione dei CO., che come si è visto è l’ultima casa posta in fondo a via Treviso, i due padri chiedevano ad un uomo che si avviava verso il suo orto (il quale risulterà essere, vedi caso, proprio CO. Ri., fratello della vittima) se potessero far giocare e correre i figli sul terreno in questione e – ricevuta una risposta sostanzialmente affermativa – scaricavano dal furgone con il braccio meccanico i mezzi trasportati, che erano tre in particolare: una moto enduro; una motoretta per bimbi destinata al figlio del BO. ed un quadriciclo destinato a O. De.

... è venuto lì [si sta riferendo proprio all’odierno imputato] e mi ha chiesto informazioni. Mi ha detto. “posso chiedere una informazione? Ho dei ragazzini da far giocare...” e ho detto: “... io non comando niente perché non è mica mio il terreno. Io non comando niente e non sono responsabile di niente... non è mica mio e io non comando niente qui...”

(così Ri CO., pag. 31, trascrizioni ud. 16 ottobre 2007).

Iniziava così la corsa per gioco dei due ragazzini con i padri che si alternavano, a bordo della terza moto, per seguirli nel loro percorso lungo il tratturo sterrato che circonda il campo sin qui descritto.

Non si sa quanto sia durato il divertimento dei due motociclisti in erba prima che il sinistro si verificasse – giacché le voci processuali sono sul punto assai discordi1 – né si sa a quale velocità viaggiassero i cicli, fatto sta che ad un certo punto – mentre il BO. seguiva ad una distanza di circa 100 mt. O. De. ed il proprio figlioletto – il primo (cioè De.), forse a causa di un avallamento (poi misurato in mt. 0,40), forse per imperizia, forse per le sue ridotte...

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