Giurisprudenza di merito

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@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. VI, 28 settembre 2000. Pres. Russo - Est. Giannelli - Imp. De Francesco ed altro.

Appello penale - Cognizione del giudice di appello - Cause di estinzione del reato - Prescrizione - Omessa rinuncia - Richiesta di proscioglimento nel merito - Inammissibilità.

L'imputato, qualora non rinunci - preventivamente o successivamente, a secondo delle evoluzioni del processo - alla precrizione, accettando l'eventualità di una condanna, non è legittimato (art. 591, lett. a, c.p.p.) a interporre appello avverso la relativa sentenza di improcedibilità, chiedendo il proscioglimento nel merito. (C.p.p., art. 593; c.p.p., art. 591; c.p.p., art. 129) (1).

    (1) La citata sentenza Corte cost. 31 maggio 1990, n. 275 si trova pubblicata in Giur. cost. 1990, 1658. Per ulteriori approfondimenti in argomento, v. Cass. pen., sez. V, 19 novembre 1999, Araniti, in Riv. pen. 2000, 751; Cass. pen., sez. VI, 2 marzo 1999, Mingon, ivi 1999, 1041 e Corte app. Trieste 13 giugno 1997, Petruz, in questa Rivista 1997, 481 con nota di A. TARLAO, Rinuncia all'appello o prescrizione?

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Avverso la decisione di cui in epigrafe interpose appello il difensore degli imputati, chiedendone l'assoluzione perché il fatto non sussiste, quanto meno ai sensi dell'art. 530, secondo comma, c.p.p.

L'impugnazione proposta avverso la suddetta sentenza deve essere dichiarata inammissibile per difetto di legittimazione, ai sensi dell'art. 591, primo comma, lett. a), c.p.p., e gli appellanti vanno, in solido, condannati al pagamento delle spese processuali di questo grado, ex art. 592, primo comma, c.p.p.

Va immediatamente, in fatto, osservato, che, con i motivi di gravame, il difensore non ha espressamente rinunciato alla dichiarata prescrizione; de jure, che non è concepibile una rinuncia tardiva, essendo, la rinuncia, con accettazione di eventuale condanna in secondo grado, un unicum inscindibile - anche temporalmente - dalla proposizione del gravame, salve le considerazioni sul momento della rinuncia, che saranno svolte in seguito.

La decisione di questa Corte va chiarita, a livello dommatico, e sistematico, nei modi e sensi che seguono.

L'art. 593, secondo comma, c.p.p. dispone che l'imputato non può appellare contro la sentenza di proscioglimento «perché il fatto non sussiste» o «per non aver commesso il fatto»; l'art. 591, primo comma, lett. a) c.p.p. fonda un'ipotesi di inammissibilità nel caso dell'impugnazione proposta da chi non abbia interesse alla stessa.

Non può sfuggire l'inutilità della prima delle invocate disposizioni, rientrante, quanto a portata, tutta, nella seconda.

Orbene, tanto premesso, a contrario, ogni altra decisione apparirebbe suscettibile di gravame. Ma il sistema del codice vigente porta a tutt'altre conclusioni.

Non si può non notare, sotto un primo profilo, che il fondamentale art. 129, primo comma, c.p.p. obbliga il giudice, fra l'altro, all'immediato proscioglimento quando il reato è estinto o quando manca una condizione di procedibilità; ma, al secondo comma, enuncia il principio secondo il quale, nel conflitto tra una causa estintiva e l'evidenza degli elementi che comportino il proscioglimento «perché il fatto non sussiste», «perché non ha commesso il fatto», «perché il fatto non costituisce reato», o «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», deve pronunciare sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta.

Ora, si deve notare che l'art. 129, secondo comma, c.p.p. obbliga l'interprete, a contrario, a ritenere prevalenti sulle formule di merito or dette quelle di impromovibilità, non poste, accanto a quelle estintive, nel testo dell'art. 129, secondo comma, c.p.p. E la ragione è evidente: mentre l'estinzione del reato presuppone l'avvenuta promozione dell'azione penale, il difetto di quest'ultima (mancanza di querela, istanza, richiesta, presenza del reo nel territorio dello Stato) inibisce al giudice ogni pronuncia di merito, anche la più favorevole ed evidente (Cass., sez. V, 13 novembre 1989, n. 2842, secondo cui le formule di proscioglimento nel merito non prevalgono sul difetto di querela; Id., 10 maggio 1995, n. 4746, secondo cui la formula che accerta il difetto di querela è di ostacolo ad ogni attività processuale ed a qualsiasi indagine di fatto).

A questo punto, ci si deve chiedere perché il legislatore, all'art. 593, secondo comma, c.p.p. - già una volta incorso nella denunciata tautologia - non abbia inteso chiarire il problema dell'impugnabilità delle sentenze con cui si dichiara, ad esempio, il difetto di querela, o di istanza, massime se si consideri lo scisma nell'ambito della dottrina civilistica sulla risarcibilità del danno ex art. 2059 c.c. nel caso di formule del genere.

Ed, allora, bisogna convenire con il rilievo che, non potendo, la sussistenza di una causa estintiva, altrimenti essere dichiarata che attraverso una formula di improcedibilità, ancorché questa ultima generi un effetto di diritto penale sostantivo (le cause estintive del reato sono elencate negli artt. 150 ss. c.p., e non nel codice di rito penale), e poiché la promovibilità altro non rappresenta che una species del più ampio genere «improcedibilità», l'art. 593, secondo comma, c.p.p. ha voluto assicurare l'appellabilità - da un canto - delle formule di merito che non siano quelle in esso enunciate, e senza alcuna limitazione di sorta (nel sistema del codice previgente, la formula che assolveva per riscontrato difetto di imputabilità era impugnabile solo se fosse stata applicata, o potesse, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza), dall'altro ha inteso negare l'appello avverso ogni sentenza di non doversi procedere (ci si riferisce, ben vero, alle facoltà dell'imputato).

A «rileggere» questo ben rigoroso sistema è intervenuta la Corte costituzionale, con sentenza n. 275 del 31 maggio 1990, che ha reso impugnabili le sentenze con cui si dichiara non doversi procedere per effetto di amnistia o di prescrizione - ancorché a seguito di comparazione tra circostanza Page 190 - purché l'imputato rinunci alla causa estintiva, stabilendo che, esercitato il diritto alla rinuncia, «il giudice non potrà dichiarare l'estinzione del reato e dovrà perciò dare ingresso alle prove richieste e pronunciarsi sull'imputazione».

Paucis verbis, la Consulta, aprendo in parte qua al diritto dell'imputato di porre in discussione la valutazione operata dal giudice a quo circa l'«evidenza» richiesta ex art. 129, secondo comma, c.p.p., ed anche in attuazione del principio dispositivo che regola la materia delle impugnazioni (art. 591, primo comma, lett. d, c.p.p.), ha inteso evitare - in questi orizzonti - l'appello «gratuito»: l'imputato, pertanto, deve sentirsi in grado di rischiare la condanna.

Proprio per questo il giudice ad quem deve essere sicuro della serietà della scelta in esame.

Perciò la rinuncia, ancorché non negotium sollemne, deve essere chiara ed espressa, sicché si incorrerebbe in grave errore ritenendo la impugnazione sic et simpliciter rinuncia per acta concludentia.

Sulla disputa sorta in seno al Supremo Collegio intorno al problema se la rinuncia debba essere preventiva o possa essere successiva (nel primo senso: Cass., sez. I, 8 settembre 1994, nel secondo Cass., sez. VI, 21 gennaio 1999) s'ha da prendere posizione nel senso che la gravità degli effetti della rinuncia impone una scelta preventiva, ma qualora - è ovvio - vi sia possibilità in tali sensi. E questa vi sarà nel caso di prescrizione per mero decorso del tempo, non nel caso «tecnicamente imprevedibile» di prescrizione a seguito di comparazione tra circostanze, o di esclusione delle stesse.

Nel caso, ancora, di prescrizione maturata a seguito di innovazione legislativa (es., art. 1 L. 16 luglio 1997, n. 234, lex novans atque mitior rispetto all'art. 323, secondo comma, c.p., nel testo di cui alla legge 26 aprile 1990, n. 86), la rinuncia dovrà essere ragionevolmente coeva all'entrata in vigore della lex mitior.

Pretendere l'impossibilità di una condanna, pur a seguito di impugnazione, e debita rinuncia, oltre che opporsi al dictum della Corte costituzionale, urterebbe contro elementari, insormontabili, canoni logici.

Ed invero, la prescrizione, contrariamente alla amnistia, la quale, una volta rifiutata dall'imputato, perde il proprio effetto definitivamente, riprende - la prescrizione - a decorrere dal giorno successivo, sicché, esercitata la rinuncia, ed impugnata la declaratoria di estinzione, ove mai il giudice dell'impugnazione non ritenesse di dover prosciogliere nel merito (opponendosi le prove), qualora gli fosse inibita la facoltà di condanna, non potrebbe pronunciare l'assoluzione, ma nemmeno confermare la decisione appellata, avendo, la prescrizione, ripreso il proprio decorso: una situazione di stallo non tollerabile dal sistema.

In mancanza della richiesta rinuncia, la sentenza rimane pur sempre astrattamente impugnabile, solo mancando una condicio juris del gravame: non si verifica, pertanto, la causa di inammissibilità preveduta dalla lettera b) dell'art. 591, primo comma, c.p.p.

Neanche si configura un caso di inammissibilità dell'impugnazione per difetto di interesse, in quanto il richiesto proscioglimento nel merito, oltre che quanto alla reputazione dell'imputato, è capace - anche se non con riguardo a tutte le formule di cui all'art. 129,primo comma, c.p.p. - di generare preclusioni ex art. 652 e 653 c.p.p.; la declaratoria di causa estintiva, invece, ex art. 198 c.p., non è capace di creare alcun ostacolo in sede civile.

Il difetto di rinuncia, allora, incide sulla - concreta - legittimazione ad impugnare, poiché la condicio juris di cui si tratta rende - per volontà della Corte costituzionale - inattuabile in concreto la facoltà di impugnativa, riconosciuta sub condicione.

Nel caso di specie, essendo stata la declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione pronunciata...

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