Giurisprudenza di legittimità

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, 1 febbraio 2000, n. 1070. Pres. Longo - Est. Petti - Soc. Autoelite (avv.ti Rizzacasa e Bisson) c. Carbone (avv.ti Leoni e D'Arezzo).

Canone - Aggiornamento - Immobili ad uso non abitativo - Clausola convenzionale - Determinazione del canone in misura differenziata e crescente - Ammissibilità - Condizioni. Canone - Aggiornamento - Immobili ad uso non abitativo - Clausola convenzionale - Conformità al sistema normativo - Onere probatorio.

In relazione al principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, la clausola convenzionale che prevede la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, per essere secondum legem (artt. 32 e 79 della legge sull'equo canone) deve chiaramente riferirsi ad elementi predeterminati desumibili dal contratto, ed idonei ad influire sull'equilibrio economico del rapporto, in modo autonomo dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira; mentre è contra legem, e come tale, radicalmente nulla per violazione di norma imperativa se costituisce un espediente diretto a neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria, con conseguente squilibrio del rapporto sinallagmatico e violazione dei limiti quantitativi previsti dal sistema normativo. L'interpretazione di tale clausola deve dunque tener conto dell'intero contesto delle clausole contrattuali ed anche del comportamento contrattuale ed extracontrattuale delle parti contraenti. (Mass. redaz.). (L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 32; L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79) (1).

Nel caso di clausola convenzionale di aumento del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, con la specificazione di elementi predeterminati ed evidenziati nel contratto, l'onere di provare la sua conformità al sistema normativo incombe a chi se ne giova, e cioè al locatore. (Mass. redaz.). (L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 32; L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79) (2).

    (1, 2) Le citate sentenze Cass. 22 novembre 1994, n. 9878 e Cass. 15 aprile 1993, n. 4474, trovansi pubblicate in questa Rivista, rispettivamente 1995, 358 e 1992, 544. Per ulteriori riferimenti, cfr. altresì Cass. 6 febbraio 1998, n. 1290, ivi 1998, 388 e Pret. Parma 31 ottobre 1998, n. 701, ivi 1999, 300.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con ricorso (depositato il 24 settembre 1993) la società Autoelite Srl in qualità di conduttrice, per uso commerciale, di un immobile sito in Bologna, convenne il proprietario locatore Florindo Carbone, dinanzi al Pretore di Bologna, per l'esatto accertamento dell'ammontare del canone dovuto, e la dichiarazione di nullità della clausola contrattuale (n. 20) che prevedeva un meccanismo di maggiorazione a partire dal secondo anno della locazione (dal 1° aprile 1984) pari a lire 50 mila al mese. Si costituiva il locatore e chiedeva il rigetto della domanda, ed in via riconvenzionale l'accertamento della validità della clausola di aumento mensile del canone.

Istruita la lite il pretore, con sentenza del 27 ottobre 1994, accoglieva la domanda attrice, rigettando la riconvenzionale ed accertava che il canone dovuto era per lire 500.000 mensili (dal 1° aprile 1984), con gli aumenti Istat come per legge per gli anni successivi, e riteneva nulla e vessatoria la clausola di aumento.

La decisione era impugnata dal locatore, che ne chiedeva la riforma, resisteva la parte appellata chiedendo il rigetto del gravame.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza depositata il 12 dicembre 1996, quale giudice di appello, in riforma della prima decisione dichiarava valida la clausola, con la decorrenza e le modalità ivi previste, e condannava l'appellata alla rifusione delle spese dei due gradi del giudizio.

Per quanto qui interessa il tribunale precisava:

1) che la clausola, costituendo una pattuizione specificatamente prevista nel contratto (come clausola aggiunta ad un testo prestampato) non poteva essere considerata vessatoria ai sensi dell'art. 1341 c.c.;

2) che per quanto concerneva la questione della validità essa doveva avere risposta positiva, posto che «è normalmente possibile anche una determinazione del canone con aumenti collegati al procedere del tempo, senza che tale metodo assuma significato di una pattuizione contra legem, compensativa in via anticipata della svalutazione monetaria».

Contro la decisione ricorre la società locataria, deducendo unico motivo di gravame, illustrato da memoria; resiste la controparte con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - Il ricorso è meritevole di accoglimento per le seguenti considerazioni.

Precede, in rito, l'esame dell'eccezione della inammissibilità del ricorso per difetto della rappresentanza societaria nel rilascio della procura ad causam a margine del ricorso (art. 75 c.p.c., terzo comma).

Assume il resistente che il ricorso risulta proposto da Marco Badiali dettosi legale rappresentante della Srl Autoelite (alla data della sottoscrizione dell'atto avvenuta il 20 marzo 1996), mentre dalla certificazione camerale allegata al controricorso risultava che questi, alla data del 21 luglio 1994 era cessato da tutte le cariche e qualifiche sociali.

Replica il ricorrente, nella memoria, che il Badiali, che «sottoscrive la memoria ad ogni effetto», nelle more ha riassunto la posizione di legale rappresentante e amministratore unico della società, ed ha espressamente «ratificato» l'operato del c.d. «gestore» (cfr. Cass. 1987/1186; 1970/1911). Si è così verificata la sanatoria diretta del difetto di legittimazione per il successivo venir meno dello stato di difetto di rappresentanza (cfr. art. 182 secondo comma c.p.c. correlato all'art. 75 c.p.c.).

La tesi del ricorrente è condivisa dal prevalente orientamento di questa Corte, secondo cui il difetto di legittimazione (in relazione alla capacità processuale e quindi al rilascio di valida procura ad causam) dà luogo ad un vizio sanabile Page 32 sia indirettamente, in conseguenza di un giudicato interno (cfr. ad es., Cass. 1984/3554) sia direttamente, mediante la costituzione del rappresentante legale, nei vari gradi del giudizio, sia attraverso atti di ratifica o di accettazione anche implicita (per facta concludentia) del contraddittorio (cfr. Cass. 1987 n. 1186; 1970 n. 1911; 1980 n. 1592; 1996 n. 4065 tra le tante). Nella specie il rappresentante della società, espressamente ha ratificato il proprio operato quale gestore utile, e dunque deve ritenersi valida la procura conferita al legale per svolgere le difese di cui al ricorso.

L'eccezione dev'essere pertanto rigettata.

Può quindi procedersi all'esame del ricorso. Nel primo ed unico motivo si deduce «violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 79 della L. 392/78, nonché insufficienza e contraddittorietà della motivazione dell'impugnata sentenza in riferimento all'asserita legittimità ed ammissibilità della clausola sub 20), pur in mancanza di una chiara prova dei profili giustificativi degli aumenti di canone in essa previsti».

Osserva il ricorrente che l'impugnata sentenza, nel riportarsi ad un consolidato insegnamento di questa Corte sul tema controverso, erra nel porre a carico della parte contrattuale debole, che è la parte conduttrice, l'onere della prova del carattere fraudolento della clausola, la quale, di per sè, determina un evidente squilibrio del sinallagma contrattuale, mentre non contiene alcun utile riferimento dei profili giustificativi degli aumenti, sicché appare, altrettanto evidente, l'intento di eludere i limiti quantitativi posti dalla norma imperativa (art. 32 L. 1978 n. 392).

Si pone così in evidenza sia l'insufficienza che la contraddittorietà di una motivazione che nega apoditticamente ed acriticamente l'esistenza di «prove» su tali intendimenti imposti contra legem dalla parte.

Il vizio della motivazione, nei termini riferiti, concreta - secondo il ricorrente - anche la violazione delle norme sostanziali di carattere imperativo e dirette a mantenere il rapporto di locazione in termini di equilibrio sinallagmatico (cfr. Cass. 92/883; 93/4474; 94/9878, tra le tante).

Il motivo è fondato; ed in vero, nel riferirsi alla giurisprudenza di legittimità che considera la questione de qua (della legittimità o meno della clausola di determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto), il giudice dell'appello ha pretermesso di dare rilevanza alla funzione squilibrante della clausola, come emergeva dalla sua semplice lettura, sicché si rendeva subito manifesto un elemento letterale e chiaro di valutazione nel senso di una presunzione di intento elusivo e contra legem, e quindi competeva alla parte che di detta clausola si giovava (il locatore) dedurre idonei elementi di valutazione (ovverosia prove) diretti a superare tale evidenza.

Sussiste dunque sia il vizio della motivazione che la violazione delle norme sostanziali richiamate con riferimento al punto relativo all'esatta interpretazione della portata della clausola convenzionale di aumento.

Il giudice del rinvio, che, per effetto dello ius superveniens, è la Corte di appello di Bologna (cfr. art. 341 c.p.c. nel testo emendato, e artt. 134, 135 D.L.vo 19 febbraio 1998 n. 51) dovrà attenersi al seguente principio di diritto: «In relazione al principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, la clausola convenzionale che prevede la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, per essere secundum legem (artt. 32 e 79 della legge sull'equo canone) deve chiaramente riferirsi ad elementi predeterminati desumibili dal contratto, ed idonei ad influire sull'equilibrio economico del rapporto, in modo autonomo dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira; mentre è contra legem, e come tale, radicalmente nulla per violazione di norma...

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