Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine35-97

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. un., 20 dicembre 2001, n. 45477 (ud. 28 novembre 2001). Pres. Vessia - Est. Rossi - P.M. Galgano (parz. diff.) - Ric. Raineri ed altro.

Prova penale - Testimoni - Incapacità e divieto di assunzione - Dichiarazioni rese nel corso di attività ispettiva o di vigilanza da soggetto poi sottoposto a procedimento penale - Operatività del divieto - Presupposti - Fondamento.

Il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato o dell'indagato ed il connesso divieto di utilizzazione si applicano alla testimonianza resa da un ispettore del lavoro su quanto a lui riferito da persona nei cui confronti siano emersi, nel corso dell'attività ispettiva, anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni, ciononostante, siano state assunte in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa, atteso che il significato dell'espressione "quando... emergano indizi di reato" - contenuta nell'art. 220 disp. att. cod. proc. pen. e tesa a fissare il momento a partire dal quale, nell'ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge l'obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire ai fini dell'applicazione della legge penale - deve intendersi nel senso che presupposto dell'operatività della norma sia non l'insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall'art. 192 cod. proc. pen., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata. (Att. c.p.p., art. 220) (1).

    (1) La sentenza si discosta dall'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, che ritiene utilizzabili in ogni caso le dichiarazioni rese agli ispettori del lavoro in sede amministrativa. Si vedano, in tal senso, Cass. pen., sez. II, 19 giugno 2000, Tornatore, in questa Rivista 2001, 101 e Cass. pen., sez. II, 25 settembre 1997, Donciglio, ivi 1998, 273.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con sentenza del 10 gennaio 2001 la Corte d'appello di Palermo ha confermato la pronuncia di condanna alla pena di otto mesi di reclusione e duecentomila lire di multa ciascuno emessa il 22 aprile 1999 dal Tribunale di Sciacca nei confronti di Antonino e Rosalia Raineri, riconosciuti colpevoli dei delitti di cui agli artt. 110, 81 cpv., 640 cpv. n. 2, 483, 61, n. 2, c.p., in relazione all'art. 21/1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, per avere con false dichiarazioni sull'esistenza tra loro, nel periodo compreso tra il 21 gennaio 1992 e il 21 giugno 1994, di un rapporto di piccola colonia agraria, conseguito indebitamente prestazioni assistenziali e previdenziali.

Secondo la ricostruzione dei fatti accolta dai giudici di merito, negli anni indicati, Antonio Raineri e la figlia Rosalia denunciarono alla competente commissione comunale di Alessandria della Rocca un rapporto di piccola colonia agraria riguardo a due appezzamenti di terreno appartenenti al primo, ottenendo, in tal modo, la seconda, l'iscrizione negli appositi elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli per cinquantotto giornate annue e, quindi, l'erogazione da parte dell'Inps di somme di denaro per complessive 2.570.000 lire a titolo di indennità di disoccupazione e malattia.

Tutto ciò nonostante che, in realtà, la donna, come da lei stessa riferito al funzionario Giacomo Bacino, incaricato dell'inchiesta aperta dall'Ispettorato del lavoro di Agrigento messo sull'avviso di una denuncia anonima sull'esistenza nella zona di situazioni irregolari, si fosse occupata dei terreni del padre soltanto nel 1992, limitatamente ai mesi di agosto, settembre e novembre, attenendosi, inoltre, scrupolosamente anche per ciò che concerne gli orari e le modalità di lavoro, alle direttive impartitele dal presunto concedente.

Replicando alle obiezioni sollevate dagli appellanti circa l'utilizzabilità della deposizione resa dall'ispettore Bacino, sulla quale la decisione gravata aveva basato essenzialmente l'affermazione di responsabilità e coerentemente svalutato i dati di segno contrario contrapposti dalla difesa, la corte palermitana, sulla scorta della prevalente giurisprudenza di legittimità, ha affermato che, nella specie, essendo state le dichiarazioni auto ed etero-accusatorie rese dalla Raineri nel corso di un'indagine meramente amministrativa e, quindi, fuori del procedimento penale, instauratosi solo successivamente, il giudice di prime cure non era incorso nella violazione degli artt. 62 e 63 c.p.p. ed aveva correttamente considerato la testimonianza raccolta un elemento pienamente valido a dimostrare, anche dal punto di vista sostanziale, la fondatezza delle accuse.

Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati i quali, oltre a censurare la motivazione della sentenza impugnata sotto il profilo della coerenza e della completezza anche con riferimento al trattamento sanzionatorio, ripropongono le questioni procedurali sollevate con gli atti d'appello, ribadendo che l'attività svolta dall'ispettore del lavoro, in quanto diretta all'accertamento di eventuali reati e, per ciò stesso, qualificabile come di polizia giudiziaria, si sarebbe dovuta svolgere con le garanzie assicurate dalla legge agli indagati in assenza delle quali i suoi risultati avrebbero dovuti essere espunti dal processo penale.

Investita della cognizione dei ricorsi, la seconda sezione penale di questa Corte Suprema, con ordinanza del 29 settembre 2001 ne ha rimesso la decisione alle sezioni unite, ritenendo che l'orientamento giurisprudenziale richiamato dai giudici di merito, favorevole all'utilizzazione delle dichiarazioni rese senza garanzie all'ispettore del lavoro da un soggetto coinvolto in un'inchiesta asseritamente amministrativa, dovesse essere rimesso in discussione alla luce di una più meditata considerazione del disposto dell'art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l'osservanza delle norme del codice anche nel compimento di attività ispettive o di vigilanza ogni qual volta, in presenza di indizi di reato, sorga l'esistenza di «assicurare le fonti di prova e raccoglierePage 36 quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale».

La chiara volontà del legislatore di dettare un precetto di carattere generale tendente a escludere da tale procedimento gli atti amministrativi diretti e, in ogni caso, idonei all'accertamento di fatti già rivelatisi di natura travalicante i confini di un'indagine soltanto amministrativa, in caso di trasgressione, comporterebbe, secondo la sezione rimettente, l'applicazione della sanzione d'inutilizzabilità comminata dagli artt. 62 e 63 c.p.p., in conformità, del resto, con un più rigoroso indirizzo già seguito, sia pure in una diversa materia, quella delle verifiche effettuate dalla guardia di finanza, da altre sezioni della stessa Corte di cassazione con il conseguente manifestarsi di un contrasto non solo potenziale e tale, dunque, da esigere un intervento chiarificatore di questo superiore consesso.

Tanto premesso, rileva il collegio che lo specifico quesito posto dal ricorso degli imputati riguarda l'utilizzabilità a fini probatori della testimonianza dell'ispettore del lavoro sulle dichiarazioni a lui rese nel corso di un'inchiesta amministrativa da persona poi sottoposta a procedimento penale per fatti emersi dall'inchiesta medesima.

La risposta finora data dalla giurisprudenza prevalente (Cass., sez. II, 25 giugno 1997, Donciglio; sez. II, 27 novembre 1998, Ricci; sez. II, 18 febbraio 2000, Tornatore), che ritiene ammissibile questo mezzo di prova (art. 194 c.p.p.), in quanto avente ad oggetto un fatto storico estraneo al procedimento penale e liberamente valutabile dal giudice, non solo trascura la differenza, pur esistente sotto il profilo ontologico, tra le dichiarazioni di un soggetto in sè e per sè considerate ed il loro contenuto, il quale quand'anche assuma un significato non semplicemente constativo, ma in tutto o in parte performativo, non le rende mai assimilabili ad un'azione obiettivamente intesa come evento della realtà fenomenica (cfr., in merito della stessa sezione seconda penale di questa Corte sent. n. 2204 del 31 marzo 1998, Parreca), rispetto al quale non possono operare preclusioni o limitazioni probatorie di sorta; ma, soprattutto, non sembra tenere nel debito conto l'esistenza della norma chiarificatrice dettata dall'art. 220, disp. att. del nuovo codice di rito e il travaglio giurisprudenziale e dottrinale che di tale precetto rappresenta la matrice.

Del disagio diffusamente avvertito dagli operatori giuridici più sensibili di fronte all'imperante opinione della possibilità di acquisizione illimitata al procedimento penale di atti di qualsivoglia natura compiuti in sede amministrativa o nell'esercizio di attività indagatorie di vario genere si era fatta interprete, sotto il vigore delle vecchie leggi processuali, la Corte costituzionale che con una serie di pronunce dedicate al delicato tema aveva rimarcato la necessità di creare «meccanismi idonei a garantire almeno un minimo di contraddittorio, di assistenza e di difesa», ogni qual volta le circostanze del caso concreto avessero determinato, anche in via di mero fatto, l'assunzione della qualità d'imputato o d'indiziato di reato nel soggetto coinvolto in inchieste o accertamenti amministrativi (cfr. ex pluribus, Corte cost. n. 86/68; 149/69; 179/71; 248/83; 15/86). Con la sentenza 2 febbraio 1971 n. 10 il giudice delle leggi nell'ambito delle funzioni demandate all'ispettorato del lavoro aveva, in particolare, distinto l'attività di vigilanza amministrativa pura e semplice da quella di polizia giudiziaria, ritenendo, peraltro, che a determinare la conversione, reale o fittizia, dall'una all'altra non bastasse una generica notizia di reato, ma fosse necessario il riconoscimento in...

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