Titolarità giuridica e gestione economica

AutoreMichele Costantino
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@1. Punti di vista e realtà

La titolarità giuridica dei diritti è regolata dalle discipline dei modi di acquisto. La gestione dei beni che formano oggetto del diritto, che apparentemente ne è la conseguenza, è regolata da altre discipline, che riguardano i modi di esercizio o di godimento.

Per individuare la rilevanza e la funzione delle destinazioni d’uso e di scopo di fonte legale o convenzionale è necessario individuare le questioni da chiarire nell’una e nell’altra di queste grandi aree. Non è possibile evitare di fare i conti con tutte e due. L’ammissibilità/compatibilità delle molteplici funzioni concrete che le destinazioni d’uso e di scopo di fonte legale o convenzionale sono dirette ad attuare secondo il vigente ordinamento positivo implica di individuare gli strumenti che possono essere utilizzati. Sul piano delle conseguenze, implica di chiarire questioni che l’uso “sociale” dei beni, come la legge o l’esercizio dell’autonomia privata lo conforma, pone comunque1.

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In altre parole, a me pare che lo stato delle questioni sulle destinazioni d’uso e di scopo dei beni – che si manifestano agli interessati quali “connotati fiduciari delle situazioni di vantaggio” – possa essere utilmente considerato facendo riferimento da un lato alle regole che governano la circolazione dei beni (e stabiliscono, per questa funzione, le condizioni e i modi del trasferimento, costituzione, estinzione dei diritti su di essi che dànno luogo a spostamenti di ricchezza); dall’altro, facendo riferimento alle modificazioni dei beni stessi, ovvero dei diritti su di essi, indipendentemente dal verificarsi di un trasferimento da un soggetto ad un altro della titolarità del diritto (e quindi dando luogo a spostamenti di ricchezza o di utilità in un senso diverso).

La prima prospettiva riguarda la disciplina dei fatti (fattispecie acquisitive a titolo originario; successioni a causa di morte) o degli atti (contratti/sentenze) che determinano un acquisto del diritto.

Ogni fatto o atto in base al quale qualcuno pretende di essere titolare è disegnato dalla legge, in virtù di qualche sua virtù intrinseca (titolo idoneo).

Questa realtà può essere descritta anche in altro modo.

Ogni vicenda circolatoria è regolata in funzione della realizzazione di interessi ed esigenze di carattere generale: le sue regole disciplinano i rapporti tra le parti e, soprattutto, i rapporti nei confronti dei terzi. Sappiamo che, indipendentemente dalla natura dei diritti e dei beni, i conflitti fra più aventi causa dallo stesso autore sono disciplinati da regole omogenee (artt. 1155, 2644, 1380, 1265, cod. civ.); così anche quelli tra alienante e aventi causa dall’acquirente (art. 2652, cod. civ., se qualcuno trascrive; altrimenti le norme corrispondenti di diritto sostanziale, se nessuno trascrive); così infine quelli fra creditori e aventi causa dal debitore (artt. 2900, 524, 1416, co. II, 512, ecc. cod. civ.). E sappiamo che i regimi delle prelazioni legali, dei privilegi e, in generale, dell’opponibilità ai terzi, integrano l’affresco delle “determinazioni legali dei modi di acquisto che assicurano la funzione sociale della proprietà”, costituendo l’essenza del titolo di provenienza, a domino o a non domino (cfr., ad esempio, gli acquisti ex artt. 816, 818, 1062, 1117, cod. civ., con gli acquisti ex artt. 939, co. II, 940, 929, cod. civ.).

Diversa è la disciplina delle modificazioni della proprietà e dell’uso “sociale” dei beni. La disciplina delle destinazioni d’uso e di scopo dei beni, di fonte legale o convenzionale che siano, è anch’essa articolata in regole omogenee. In nessun caso, però, si tratta di eccezioni o di deroghe a un principio vincolante di ordine generale, ispirata dall’esigenza di proteggere un astratto regime di appartenenza, inteso in senso individuale e considerato presupposto.

Se i principi che tali regole specificano fossero stati individuati e collocati in modo sistematico, tenendo conto di tutte le valenze di cui si sono ar-Page 11ricchiti2, probabilmente le questioni originate dai casi di scissioni tra titolarità giuridica e appartenenza economica, ovvero da modificazioni dei beni giuridici, sarebbero meno dense di dubbi, pur trattandosi di questioni complesse, ma in ogni caso non complicate.

La verità è che non esistono principi universali (il diritto non sta in cielo, ma sulla superficie di questa terra; le leggi sono fatte ed applicate dagli uomini) se si accetta la necessità di individuare preventivamente l’oggetto e la funzione specifica di ogni fattispecie e di ogni regola o insieme di regole che la disciplinano. Piuttosto, è fonte di complicazioni il richiamo improprio a nozioni astratte, ritenute a torto fondate su esigenze di protezione di sfere giuridiche individuali considerate presupposte. Il diritto regola relazioni umane e non sta lì per assecondare voglie di dominio o di disposizione.

Non mi riferisco soltanto ai problemi interpretativi e, soprattutto, applicativi della norma che, in tema di trascrizione, si riferisce alle modificazioni della proprietà (comb. disp. artt. 2643, n. 14, e 2645, cod. civ.), e quindi costringe a dare conto di quegli atti che, indipendentemente dal verificarsi di un trasferimento da un soggetto ad un altro della titolarità di un diritto, indipendentemente dal verificarsi di un acquisto a titolo originario o di un acquisto a titolo derivativo o derivativo-costitutivo, e quindi senza spostamenti di titolarità giuridica, comportano modificazioni dei beni stessi, ovvero dei diritti su di essi.

Mi riferisco, invece, ad obiettive incertezze circa la scelta della prospettiva corretta da cui istituire la diagnosi di fenomeni giuridicamente rilevanti, al fine di sollecitare un minimo di verifica storica e sistematica.

Formule e principi fondamentali sono richiamati per il loro valore carismatico nei dibattiti sulle questioni aperte dalle discipline sulle destinazioni d’uso e di scopo dei beni (basta pensare ai convegni sul tema “normative di sicurezza e privacy”), ma per una funzione diversa da quella loro propria e specifica, che conosciamo benissimo. Insomma, può darsi che certe complicazioni siano imputabili all’enfasi del richiamo stesso, che a volte è improprio.

Questa osservazione banale trova riscontro nel frequente richiamo della nozione tradizionale di proprietà privata3, sia se confina con la tematica delle determinazioni legali, giudiziali e convenzionali dei modi di godimento (nel qual caso si richiamano le ragioni della conservazione del “numero chiuso” dei diritti reali), sia se confina con la tematica delle determinazioni legali, giudiziali e convenzionali dei modi di acquisto (nel qual caso si richiamano volta a volta a un preteso “potere di disposizione”, alle virtù del principio del consenso, alle esigenze di tutela dell’autonomia privata, senza tener conto dei regimi degli acquisti a domino e a non domino).

Certo è che quando il richiamo alla nozione di proprietà, dispregiativamente denominata codicistica, viene compiuto attribuendo alla nozione richiamata un fondamento individuale esasperato – come avviene quando siPage 12 vuole screditare un discorso altrui e accreditare senza ulteriori sforzi argomentativi il proprio – qualche difficoltà di non poco conto dal punto di vista teorico e pratico non manca di manifestarsi4.

Ebbene, se questo richiamo viene compiuto per ricordare che il binomio proprietà-libertà sottolineava l’affrancazione dagli oneri, pesi e vincoli che circondavano la proprietà nei secoli precedenti alla rivoluzione borghese – prevalentemente in base al diritto consuetudinario – allora bisognerebbe darsi la pena di dimostrare in quale senso specifico la tale destinazione d’uso o di scopo viola il principio di ordine pubblico economico richiamato. Può trattarsi di oneri, pesi e vincoli che nascono dalla autonomia del proprietario di scegliere l’organizzazione produttiva del bene (e quindi la sua destinazione), non da pretese della nobiltà e del clero, anche se a volte sia queste sia quelle si ammantano di scopi magnanimi e sociali5.

“Libertà da” non “libertà di” era il senso del binomio Freiheit und Eigentum. La “libertà di” semplicemente non c’era. Non c’era e non c’è il fondamento sottinteso nel richiamo, tanto autorevolmente e costantemente ripetuto6, secondo cui, esistendo proprietà pubblica e proprietà privata, la nozione di proprietà privata esprime una libertà individuale senza limiti e dà luogo a povertà e ricchezza entrambe senza limiti7.

L’equivoco sta nel far credere che la nozione richiamata di proprietà consiste in un vuoto in un circolo di norme, sicché ogni regola, qualunque regola, deve (o doveva?) essere intesa come una “restrizione”, “compressione”, “limitazione” alla proprietà.

Ma anche questo secondo significato non è vero.

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Vi sono indici normativi vincolanti. Secondo la Costituzione, la legge determina positivamente i modi di godimento della proprietà, che è un diritto patrimoniale, a differenza dei diritti inviolabili e fondamentali della persona, il cui contenuto è determinabile soltanto negativamente.

Vi sono indici sistematici significativi. La concezione dispregiativamente denominata codicistica della proprietà privata è tutta fondata sulla disciplina dei beni e determina i modi di godimento non soltanto in relazione alla qualificazione giuridica delle cose che formano oggetto di diritti (art. 810, cod. civ.), ma soprattutto in relazione all’attuale o potenziale destinazione economica del bene in vista del conseguimento di scopi sociali (art. 845, cod. civ.).

Vi sono indici storici chiarissimi. Per esempio, il diritto di chiudere il fondo “in qualunque tempo” che, come dispone l’art. 841, cod. civ., è espressione del diritto di scegliere l’organizzazione produttiva del bene e quindi di uscire dalla rete dei rapporti fra proprietari fondiari (è secondario notare che questo diritto è stato inteso quale espressione dell’imprescrittibilità della proprietà in nome di una congettura: l’esclusività...

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