L’art. 103 Comma 5 c.p.p. tra garanzie della difesa ed esigenze investigative

AutoreGiuseppe Pavich
Pagine495-498

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@1. Premessa

Il comma quinto dell’art. 103 c.p.p. stabilisce, come noto, che non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari, nè a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite.

Su questo semplice dato testuale, dottrina e giurisprudenza hanno affrontato, con visioni talora contrapposte, uno dei punti dolenti del difficile equilibrio fra tutela dell’esercizio del diritto di difesa ed esigenze investigative finalizzate all’esercizio dell’azione penale.

Il divieto in parola - sanzionato con l’inutilizzabilità dei risultati investigativi conseguiti in violazione dello stesso (art. 103 c. 7) - è stato variamente interpretato nel suo ubi consistam; gli arresti giurisprudenziali hanno inoltre indotto le organizzazioni di categoria forensi a sostenere proposte di modifica del testo normativo, orientate verso un’espansione delle prerogative del difensore ed una più radicale tutela della segretezza delle sue attività.

@2. La giurisprudenza della Corte di Cassazione

In linea di massima, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato il divieto circoscrivendolo alla captazione di conversazioni strettamente attinenti il diritto di difesa, ed escludendone le conversazioni aventi contenuti ad esso estranei o, a maggior motivo, di per sé penalmente rilevanti. Questo implica che la delibazione circa le conversazioni da qualificarsi come inutilizzabili e quelle non rientranti nel divieto di intercettazione avvenga necessariamente a posteriori, con l’ulteriore conseguenza che le attività captative - una volta autorizzate - vengono comunque eseguite, e che la qualifica professionale del soggetto intercettato (il difensore, appunto) non è di per sé ostativa all’esecuzione delle operazioni.

Nel tempo, le indicazioni offerte dalla Suprema Corte si sono assestate delineando un quadro sufficientemente preciso dei limiti di operatività del divieto.

Afferma infatti la Cassazione che la disposizione in esame, nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, riguarda l’attività captativa in danno del difensore in quanto tale ed ha dunque ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni - individuabili, ai fini della loro inutilizzabilità, a seguito di una verifica postuma - inerenti all’esercizio delle funzioni del suo ufficio e non si estende ad ogni altra conversazione che si svolga nel suo ufficio o domicilio1.

La prescrizione anzidetta, non traducendosi pertanto in un divieto assoluto di conoscenza ex ante, implica quindi una verifica a posteriori del rispetto dei relativi limiti, la cui violazione comporta l’inutilizzabilità delle risultanze dell’ascolto non consentito, ai sensi dell’art. 103, comma settimo, e la distruzione della relativa documentazione, a norma dell’art. 271 richiamato dallo stesso art. 103, comma settimo, del codice di rito2.

L’operatività del divieto di intercettare conversazioni inerenti alla funzione difensiva può peraltro ravvisarsi anche a seguito di una verifica successiva all’eventuale captazione che non sia stata disposta nei confronti del difensore in quanto tale3: se, ad esempio, ad essere intercettata è l’utenza della persona sottoposta ad indagini e, durante le operazioni, sulla sua utenza si svolge una conversazione con il suo difensore avente ad oggetto attività riferibili all’esercizio del diritto di difesa, l’esame a posteriori di detta conversazione ne determinerà l’inutilizzabilità.

Questa posizione implica la necessità di delimitare, nei casi dubbi, il contenuto “difensivo” (e come tale sottoposto a tutela) delle conversazioni intercettate. Ossia di chiarire quando queste ultime abbiano il carattere della pertinenza all’esercizio del diritto di difesa.

Sul punto, la Suprema Corte ha operato un’actio finium regundorum ben precisa.

In particolare, opina la Corte che non ricorra il divieto di utilizzazione delle risultanze di una conversazione, quando nel corso della stessa il difensore comunichi al proprio assistito la avvenuta autorizzazione dei colloqui in carcere con il genitore, trattandosi di circostanza non inerente alla funzione difensiva e comunque liberalmente ottenibile dagli inquirenti per altra via4, o quando l’attività captativa riguardi una conversazione dell’indagato con quello che era il suo difensore in un procedimento civile, trattandosi di elementi non attinenti alla funzionePage 496 difensiva di cui il legale era stato investito5; viceversa la Corte ritiene che l’ inutilizzabilità delle intercettazioni con il proprio difensore sussista quand’anche l’indagato non abbia ancora comunicato all’autorità procedente la nomina del difensore ai sensi dell’art. 96 c.p.p., in quanto ciò che rileva ai fini della garanzia di cui all’art.103 è la natura del colloquio e non la formalizzazione del ruolo del difensore6.

Resta, invece, categoricamente esclusa dalla copertura del divieto l’ipotesi di intercettazioni di conversazioni intrattenute col difensore ed aventi, esse stesse, contenuto illecito: afferma cioè la Suprema Corte che l’art. 103, comma 5, cod. proc. pen., nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, mirando a garantire l’esercizio del diritto di difesa, ha ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva...

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