“Frazionamento” dei giudizi e divieto di pubblicazione degli atti

AutoreDanila Certosino
Pagine212-217

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Con l’ordinanza in epigrafe, i giudici del Tribunale del Riesame di Ancona affrontano la questione se il divieto di pubblicazione degli atti ex art. 114 c.p.p. permanga anche nell’ipotesi di “frazionamento” del giudizio, derivante dalla scelta di alcuni coimputati di non procedere al dibattimento, optando per definizioni alternative del procedimento1.

In particolare, la vicenda processuale ruota intorno alla commissione del reato ex art. 684 c.p. da parte di un editore, per aver pubblicato un libro contenente atti di indagine relativi ad un procedimento penale ancora in corso: atti acquisiti al fascicolo del pubblico ministero e non ancora confluiti nel fascicolo per il dibattimento, quindi coperti dal divieto di pubblicazione ex art. 114 comma 3 c.p.p.

Ad avviso della difesa, in seguito alla scelta di alcuni coimputati (del procedimento relativo agli atti di indagine resi noti) di procedere al giudizio abbreviato, il divieto de quo sarebbe venuto meno per essere già stata definita la posizione dei coimputati medesimi. Come si legge nell’ordinanza in commento, “superato, dunque, il limite temporale del divieto di pubblicazione, che come sancito dall’art. 114 comma 2 c.p.p., vale sino alla chiusura delle indagini (provvedimento di archiviazione) o alla sentenza che definisce l’udienza preliminare (sentenza di non luogo a procedere, o ex art. 444 c.p.p., ovvero di merito), ciò renderebbe la pubblicazione pienamente legittima”.

Prima di affrontare la particolare fattispecie oggetto dell’ordinanza in esame, è opportuno soffermarsi innanzitutto sul concetto di segreto processuale, per poi ripercorrere l’excursus legislativo che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 114 c.p.p.

Con l’espressione “segreto processuale” deve intendersi “il complesso dei limiti normativi posti alla comunicabilità delle conoscenze relative al procedimento penale”2.

All’interno del concetto di segreto occorre ulteriormente distinguere fra “segretezza interna” e “segretezza esterna”: ad avviso della dottrina, la segretezza interna impone un divieto di rivelazione a carico dei soggetti che, in ragione del proprio ufficio, vengano a conoscenza di determinati atti che devono rimanere segreti; la segretezza esterna, invece, ha ad oggetto atti che, pur non essendo necessariamente coperti da segreto, non sono comunque divulgabili attraverso la stampa o altri mezzi di diffusione, in forza di un divieto di pubblicazione che incombe su chiunque3.

Al fine di chiarire cosa debba intendersi per “pubblicazione” degli atti, autorevole dottrina ritiene che integri il concetto di pubblicazione “non la comunicazione ad uno o più soggetti determinati delle notizie di cui sia vietata la propalazione, ma la loro rivelazione con modalità tali da metterne al corrente un numero indefinibile di persone”4. Viene, pertanto, in rilievo oltre alla stampa, ogni altro mezzo di divulgazione dotato di capacità diffusiva (radio, televisione, manifesti etc.)5. Si ritiene possa ricondursi al concetto di pubblicazione anche la diffusione di atti processuali tramite la creazione di un sito internet, in quanto idonea a raggiungere un numero indeterminato di persone6.

L’esigenza di salvaguardare il procedimento penale da pericolose forme di pubblicazione era già ben nota al legislatore del 1930. L’art. 164 c.p.p. abr., rubricato “divieto di pubblicazione di determinati atti”, vietava, infatti, la “pubblicazione del contenuto di qualunque documento e di ogni atto scritto od orale relativo all’istruzione formale o sommaria, fino a che del documento o dell’atto non venisse data lettura nel dibattimento a porte aperte”. Quello contemplato nell’ambito del codice Rocco era, quindi, un divieto generale di pubblicazione operante durante l’intera fase istruttoria e a carico di chiunque7.

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È appena il caso di ricordare che l’art. 299 c.p.p. abr. affidava al giudice istruttore la conduzione delle indagini, attribuendogli la possibilità di compiere atti probatori rilevanti ed utilizzabili in dibattimento. Pertanto, “la ratio del segreto istruttorio consisteva nella necessità di garantire l’efficace svolgimento della istruzione, potendo quest’ultima svolgersi solo non fornendo all’imputato notizie che potessero offrirgli il mezzo di sviare le ricerche, cercare prove false, preparare difese artificiose o prevenire comunque l’operato del giudice”8.

Alla luce di quanto esposto appare evidente come il segreto istruttorio rappresentasse una delle caratteristiche essenziali e distintive del vecchio rito inquisitorio, ponendosi come il più grosso limite formale all’informazione giudiziaria9. A causa di questo eccessivo rigore, quella sul divieto di pubblicazione (sia degli atti che del loro contenuto) rappresentava, forse, la norma più violata del codice Rocco: infatti, il totale segreto della fase dell’istruzione formale aveva finito per favorire il “mercato nero” della notizia, per cui i giornalisti più addentrati all’interno dei tribunali riuscivano egualmente a carpire informazioni e a divulgarle. Questi motivi hanno indotto il legislatore del 1988 ad adottare una disciplina meno rigida.

Nella Relazione al progetto preliminare del codice Vassalli viene, infatti, posta in evidenza “l’esigenza di circoscrivere al massimo possibile il divieto di pubblicazione, facendolo cadere man mano che, in relazione allo svolgersi del processo, non ha più ragione d’essere”10. Il segreto è qualificabile come segreto “investigativo” e non più come “istruttorio”, in quanto gli atti raccolti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria (salvo specifiche eccezioni) non hanno valore di prova utilizzabile ai fini della decisione dibattimentale.

Una delle maggiori innovazioni introdotte, rispetto alla disciplina prevista dall’art. 164 c.p.p. abr., concerne la distinzione fra pubblicazione dell’ “atto” e pubblicazione del “contenuto dell’atto”. Essa è rilevabile dal combinato disposto dei commi 1 e 7 dell’art. 114 c.p.p.: il primo profilo investe la riproduzione totale o anche parziale del testo dell’atto; il secondo aspetto concerne la pubblicazione di quanto l’atto esprime dal punto di vista concettuale. Secondo l’opinione prevalente in dottrina, non potendo intendersi per contenuto ciò in cui l’atto si sostanzia, perché altrimenti verrebbe a coincidere con l’atto nella sua interezza, la pubblicazione del contenuto dell’atto ricomprende tutte le informazioni relative all’atto che non consistano in una riproduzione testuale, integrale o parziale, dell’atto stesso11.

Nell’articolare il divieto di pubblicazione, il codice pone una distinzione fondamentale fra gli atti del dibattimento e gli atti anteriori al dibattimento; all’interno di questi ultimi si distingue, poi, fra atti segreti per l’indagato e atti conoscibili dall’indagato stesso. Nei confronti degli atti segreti, l’art. 114 comma 1 c.p.p. pone un divieto assoluto di pubblicazione, sancendo espressamente che “è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto”.

L’assolutezza del divieto in esame deriva, quindi, dal fatto che, nei casi espressamente disciplinati, vige un divieto di pubblicazione dell’atto non soltanto nella sua forma testuale, ma anche nel suo contenuto.

L’individuazione degli atti coperti da segreto viene offerta dall’art. 329 comma 1 c.p.p.: si tratta degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a quando l’imputato (rectius l’indagato) non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari, quando cioè venga notificato all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis comma 1 c.p.p. o quando le indagini si concludano con un provvedimento di archiviazione12.

Analizzando la norma de qua nel dettaglio, vediamo, come, dal punto di vista oggettivo, devono considerarsi sottoposti al divieto assoluto “gli atti di indagine”. Ciò significa che non sono coperti da segreto gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero che non assumono una valenza di indagine, come, ad esempio, l’informativa sulla notizia di reato, la trasmissione al giudice della richiesta di sequestro, la richiesta di autorizzazione a disporre l’intercettazione di comunicazioni o conversazioni o la richiesta di autorizzazione a disporre l’accompagnamento coattivo della persona sottoposta alle indagini.

Trattasi, in tal caso, di atti della fase delle indagini preliminari che non possono tecnicamente qualificarsi come atti di indagine, cioè come atti diretti al reperimento e all’assicurazione delle fonti di prova13. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti anche l’informazione di garanzia rientrerebbe nel novero degli atti sottratti al divieto di pubblicazione, dato che, a seguito della modifica introdotta dall’art. 18 l. 8 agosto 1995, n. 332, il pubblico ministero deve inviarla “solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere”14.

Merita segnalare come la volontà di rendere divulgabili gli atti che non possono qualificarsi tecnicamente come atti di indagine, espressa chiaramente nell’ambito dell’art. 329 c.p.p., collida, in realtà, con l’originaria volontà legislativa. Infatti, la direttiva n. 71 legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81 prevedeva un “obbligo di segretezza su tutti gli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria”, mentre con l’entrata in vigore del nuovo codice si è fatto espressamente riferimento ai soli “atti di indagine”15.

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