La prova dibattimentale e le maggiori questioni giurisprudenziali sul maltrattamento in famiglia

AutorePatrizia Galucci
Pagine569-573

    Relazione tenutasi ai convegno «I reati in famiglia. I maltrattamenti ed il comportamento di chi subisce la violenza», Monza 17 marzo 2009.

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@1. La prova dibattimentale del maltrattamento

@@1.1. La testimonianza dell’adulto maltrattato

– Le difficoltà della prova in questo tipo di reato sono molteplici ed interessano sia i soggetti che sono protagonisti della vicenda – vittime e autori – sia gli stessi fatti oggetto della prova che, in molti casi e per loro stessa natura, risultano indefinibili poiché le azioni attraverso le quali può realizzarsi il maltrattamento possono essere le più diverse; esse vanno dalle ingiurie e le percosse fino ai silenzi o alla negazione del denaro indispensabile per provvedere ai bisogni più elementari, per giungere persino alla negazione della possibilità di mantenere il riserbo o di turbare il naturale pudore anche solo dei sentimenti, con una permanente ed opprimente invasione della sfera personale.

Naturalmente tutte queste azioni appaiono difficili da raccontare perché si tratta di rappresentare agli interlocutori il clima creatosi nella famiglia, un clima che molto spesso è fatto solo di sguardi, di intimidazioni anche silenziose, di condizionamenti, di vessazioni e di persuasioni anche sottili ma che nel tempo, risultano devastanti della stessa autostima della parte lesa che viene indotta a credere di non valere nulla, di essere un’incapace, di non avere altra possibilità che quella di sottostare alle angherie cui viene sottoposta.

Dal punto di vista soggettivo gli ostacoli sono costituiti da un lato, dal fatto che come in tutti i reati che si consumano all’interno delle mura domestiche, mancano spesso testimoni oculari dei maltrattamenti e quindi il racconto del soggetto vittima del maltrattamento costituisce la prova principe, quando non l’unica, del reato; dall’altro dalla difficoltà di raccontare la storia che è spesso quella di una vita intera vissuta di frequente come un fallimento personale e fatta di botte, di insulti e, non di rado, di violenze sessuali.

Occorre poi riflettere che la trasformazione del ricordo in narrazione risulta difficile quando l’evento sperimentato dall’individuo ha un carattere traumatico.

L’evento traumatico, ha scritto SMORTI1, sconvolge le aspettative che l’individuo ha sull’evoluzione delle realtà che egli vive e sconvolge lo stesso fluire del tempo, risultando difficilmente comunicabile.

Come è stato detto da BARCLAY2, cercando di narrare un evento traumatico l’individuo percepisce quella esperienza come «indicibile».

Dunque si prospetta un duplice problema che riguarda dapprima la formazione stessa della prova testimoniale, che deve superare le difficoltà del racconto del trauma, e che le parti lese del reato di maltrattamenti in famiglia (come di altri reati che investono la sfera affettiva e strettamente personale) quasi sempre incontrano e, successivamente, la valutazione di questa prova testimoniale che, in quanto proveniente da soggetto portatore di interessi antagonistici rispetto a quelli dell’imputato, va sottoposta ad un vaglio di attendibilità intrinseca particolarmente rigoroso. In tal senso infatti si è pronunciata la Suprema Corte3.

Il problema è tanto più sentito laddove (e non di rado) la testimonianza dibattimentale è la prima che viene resa ad un magistrato e costituisce un primo impatto che avviene in ambiente certamente non favorevole, in molte occasioni in presenza del marito o compagno o, in generale del maltrattante e, comunque, in pubblico, in un’aula di udienza.

Questa modalità di ascolto comporta un duplice ordine di rischi, da un lato quello di infliggere alla persona offesa dal reato una pesante ulteriore umiliazione ed una sofferenza connessa alle difficoltà delle quali si è detto, di verbalizzare esperienze traumatiche e, dall’altro, quella di sottoporre ad indebite pressioni la parte offesa, pressioni che potrebbero fortemente incidere sulla genuinità della prova da assumere, inducendo la p.o. a ritrattare o ad attenuare la propria versione dei fatti.

Non di rado si sente dire che «tutto sommato... le cose si possono rimediare, che in fondo si è trattato di episodi sporadici e che ci sono i figli e per il loro bene si è ottenuta la promessa che nessuna violenza sarà più posta in essere...».

Non si deve mai dimenticare che nella maggior parte di queste situazioni è la donna a vestire i panni della vittima ed è una donna che è stata succube del marito o compagno maltrattante, che non le ha con-Page 570sentito neppure di raggiungere una propria autonomia lavorativa e che sente su di sé la responsabilità di non essere in grado di portare avanti la famiglia ed i figli con le proprie forze; spesso è stata talmente annullata la personalità di queste donne che temono che, denunciando il loro aguzzino, non saranno in grado di sopravvenire in modo autonomo nemmeno dovendo badare solo a sé stesse.

@@1.2. La difficoltà soggettiva della testimonianza. La nuova disciplina dell’incidente probatorio

– Fino a pochissimo tempo fa il legislatore non si era fatto carico di questo problema e le donne maltrattate avevano dovuto attendere il dibattimento ed affrontare il loro personale calvario di rendere testimonianza con le modalità di cui si è detto ma, con il D.L.vo 11/09, che ha introdotto il reato di atti persecutori e che è stato recepito con L. 23 aprile 2009, n. 38, è stata estesa la possibilità di ricorrere all’incidente probatorio per l’assunzione della prova sia per il reato di cui al nuovo art. 612 bis, sia per il reato di cui all’art. 572 c.p.

Ciò vuol dire che il comma 1 bis dell’art. 392 c.p.p. che disciplinava originariamente la testimonianza in incidente probatorio del minore infrasedicenne (non necessariamente persona offesa) nei procedimenti per violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, corruzione di minorenni, pedofilia e pornografia virtuale, e tutti quelli legati al fenomeno della tratta di esseri umani, è stato esteso anche ai procedimenti in tema di atti persecutori e di maltrattamenti in famiglia, e non solo per gli infrasedicenni, ma per tutti, minorenni e maggiorenni.

Va segnalata un’anomalia, in ordine all’art. 190 bis comma 2 c.p.p., che continua invece a prevedere solo per gli infrasedicenni il divieto di essere risentiti sulle medesime circostanze sulle quali hanno già deposto, se non per specifiche esigenze, così da far ritenere che sia lecito far reiterare la testimonianza dell’infradiciottenne e del maggiorenne anche su fatti sui quali hanno già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio, vanificando di fatto il risultato di tutela ottenuto con la riforma.

È stata comunque estesa anche ai minorenni (e ai maggiorenni infermi di mente come stabilito dalla Corte costituzionale)4, vittime di maltrattamento (oltre che di atti persecutori) la possibilità, a richiesta dei testimoni stessi o del loro difensore, di essere sentiti con modalità protette (vetro a specchio, impianto citofonico, ecc.).

La stessa tutela sembra essere esclusa per gli adulti sani di mente e, di conseguenza, sarà rimesso al giudice, laddove se ne ravvisi l’opportunità, di adottare misure che, pur non modificando in concreto le modalità di assunzione della prova, consentano alla parte offesa che risulti particolarmente vulnerabile, di rendere la propria testimonianza in una condizione il più possibile serena.

Penso per esempio all’affiancamento, se del caso, di una persona di fiducia scelta dalla teste nel contesto familiare o dei servizi sociali o nelle forze dell’ordine; penso ancora alla collocazione in aula di un paravento che impedisca alla parte lesa di dover guardare – se non richiesto da esigenze istruttorie – l’imputato eventualmente presente in aula: in questi casi sarà la sensibilità del giudice, magari sollecitata dai difensori, a trovare la soluzione più adeguata al caso concreto, sempre nel rispetto delle regole procedurali.

Personalmente ed in relazione all’esperienza fatta, sono scettica rispetto all’utilizzo effettivo che verrà fatto dell’incidente probatorio in questi casi, poiché di rado in questo tipo di procedimenti il pubblico ministero acquisisce personalmente le dichiarazioni della p.o.; quale sia la causa di questa scelta non è dato sapere e, forse, la ragione va ravvisata nel fatto che si ritiene erroneamente che questi processi non richiedano o non consentano indagini particolari per la ricerca di riscontri esterni alle dichiarazioni della p.o., o forse perché si sottovaluta la condizione psicologica e di fatto in cui versa la p.o. del maltrattamento; ciò sembra trovare conferma nel ricorso solo sporadico che si è fatto alla misura introdotta dalla L. 154 del 2001 che, con l’art. 282 bis, ha previsto l’allontanamento dalla casa familiare.

Sorge il sospetto che il maltrattamento in famiglia sia considerato quasi «figlio di un dio minore».

Troppo spesso si affida l’intera responsabilità dell’accusa alla testimonianza della parte lesa anche quando si potrebbe, e non si fa, cercare sin alle indagini preliminari un riscontro esterno a quanto viene esposto nella denuncia; il massimo cui possiamo ambire come giudici dibattimentali, è qualche certificato di pronto soccorso in cui si registra una lesione accidentale da caduta per le scale o da urto contro una porta o simili, mentre quasi mai si sentono le persone vicine alla parte lesa, che ne possono aver raccolto il racconto nel tempo, le confidenze e che siano per esempio in grado di ricollegare i maltrattamenti alle lesioni refertate nelle diverse occasioni, così da riscontrare sia la tipologia di atti realizzati che la loro abitualità che deve essere presente perché il reato sia configurabile.

In altri casi, si omette di valutare il possibile contributo dei vicini di casa come testimoni che potrebbero certamente fornire un valido apporto probatorio riferendo quanto hanno eventualmente visto o sentito dalla loro casa, anche se questo, in qualche caso, deve ricondursi o alla indisponibilità di tali soggetti che non...

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