Danni morali e separazione coniugale

AutoreEdgardo Colombini
Pagine763-766

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Fra i problemi collegati alla separazione personale dei coniugi non trascurabile rilevanza può avere quello relativo ad eventuali pretese risarcitorie del danno morale da parte del marito o della moglie superstite del soggetto deceduto a seguito di un incidente stradale di cui sia responsabile in tutto o in parte un terzo estraneo.

Tendenzialmente ci si è orientati in giurisprudenza verso una risposta negativa, ma se questa impostazione può avere fondamento innegabile quando la separazione sia avvenuta per esclusiva volontà del coniuge superstite, qualche perplessità non può non prospettarsi nel caso opposto.

Ovvio infatti che nella prima delle due situazioni dianzi indicate si possa affermare con tutta tranquillità che «il coniuge superstite non abbia accusato un pregiudizio morale in conseguenza della tragica morte del coniuge separato (Trib. civ. Venezia, sez. III, 22 gennaio 1994 n. 160, in questa Rivista 1994, pag. 863).

Nella situazione di specie esaminata dai magistrati veneziani era invero risultato che il coniuge superstite era ormai separato da tempo per propria esclusiva volontà e contro gli intendimenti della moglie, di talché non sembrava sostenibile che egli avesse provato sofferenza morale e disagio interiore a seguito della morte della consorte.

Dubbi suscita invece la lettura di una decisione del Tribunale civile di Casale Monferrato (5 giugno 1997, in questa Rivista 1997, pag. 697), che - pur dopo avere riconosciuto che, nonostante la separazione dei coniugi, un legame affettivo almeno da una parte possa sussistere nei confronti dell'altra - indicando che «tale legame necessita di una prova molto più rigorosa rispetto a quella richiesta da precedenti giurisprudenziali per i fratelli dal momento che il coniuge separato congiunto non è», individuava la mancanza di tale prova nel fatto che «il consorzio matrimoniale era durato solo un anno»: il che appare un po' poco se si considera, oltre tutto, che non si affermava «essere avvenuta la separazione su ricorso del marito superstite essendo divenuta la convivenza intollerabile», prospettandosi, invece, tale circostanza soltanto in via ipotetica («... specie se fosse avvenuta su ricorso del marito...»).

Invero, quando il coniuge superstite sia proprio quello che avrebbe comunque mirato alla conservazione del matrimonio non tanto per ragioni economiche quanto piuttosto per questioni affettive, riesce difficile escludere l'esistenza di «sofferenze morali che di solito si accompagnano alla morte di una persona cara» (vedasi in sentenza della III sez. della Corte di Cassazione civile n. 10393 del 17 luglio 2002, in questa Rivista 2002, pag. 734).

Né si pensi che possa trattarsi di sola prospettazione accademica: le circostanze della vita disegnano infatti tali e tante situazioni anche fuori dal comune che non ci si può meravigliare di alcunché.

Nella stessa ipotesi di una separazione giudiziale può invero verificarsi anche il caso estremo di un coniuge che abbia dato motivo ad una pronuncia di separazione per grave contrasto con il consorte sul modo di professare la religione e di educare i figli dal punto di vista religioso, ma che - nonostante tutto - abbia conservato un sentimento di vivo affetto per l'altro coniuge.

E tanto può proprio avvenire nonostante la separazione sia stata pronunciata ai sensi dell'art. 151 c.c. «essendo stata accertata la sussistenza di fatti obiettivi che rendano intollerabile la prosecuzione della convivenza o che siano di pregiudizio per la prole, anche quando non risulti che i coniugi abbiano avuto un comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio, per cui può essere considerato idoneo a determinare in concreto una situazione di improseguibilità della convivenza o di grave pregiudizio per la prole anche il solo comportamento del coniuge, ispirato a motivi ideologici, che si ricolleghi all'esercizio dei diritti garantiti dall'art. 19 Cost. e che rientri, inoltre, nell'ambito dei poteri-doveri inerenti alla potestà genitoriale, quando il detto comportamento si traduca in atti oppressivi di intolleranza ed aggressività» (Cass. civ., sez. I, 26 maggio 1990 n. 4920).

Tizio ha cioè determinato orientamenti in materia di professione religiosa e di educazione dei figli tali da portare - come si è visto nella situazione specifica giunta all'esame della Suprema Corte - alla separazione giudiziale da Sempronia verso la quale conserva comunque, pur nella rigidità del proprio divisamento che gli impedisce di ammorbidire certe asprezze teoriche e, quindi, comportamentali o di opporsi a qualsiasi ragionevole intesa, un sincero affetto.

La cosa non può sorprendere: la psiche umana non è riconducibile a schematizzazioni di sorta e nella realtà della vita situazioni del genere possono essere effettivamente individuabili. Sono invero manifestazioni di apparente incongruenza riscontrabili in ogni comunità che talora - quando ad esserne coinvolti siano soggetti forse psichicamente più fragili - portano ad episodi clamorosi se non a tragedie che proprio in quella incongruenza di sentimenti e di comportamenti trovano non infrequentemente se non una giustificazione, quanto meno, una spiegazione.

Orbene, se - in questa situazione - Sempronia, dopo la separazione giudiziale, viene coinvolta in un incidente della circolazione che ne determina la morte, non è chi non veda la possibilità anche per Tizio di avvertire una sofferenza morale e, quindi, di vantar il diritto ad un risarcimento per il danno morale nei confronti del civilmente responsabile di quel sinistro.

Separazione giudiziale non può quindi corrispondere automaticamente al venir meno di qualsiasi sentimento affettivo nei confronti dell'altro coniuge: nella...

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