La conciliazione come alternativa alla giustizia civile: inderogabilità delle norme ed astreintes

AutoreNino Scripelliti

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  1. È negativo il giudizio sulla conciliazione obbligatoria (o meglio, su questa conciliazione obbligatoria), presentata come alternativa al potenziamento del servizio pubblico della giustizia civile e come soluzione ideale ed utopistica di una giustizia compositiva privata, ma che nella realtà vale come privatizzazione surrettizia (gli organismi di conciliazione) ed abdicazione dello Stato alla funzione sovrana della giustizia e come esaltazione, politicamente corretta, del compromesso a tutti i costi, che, nella sostanza, è il risultato del potere e della debolezza contrattuale di una parte nei confronti dell’altra, rispetto al dictum del giudice che è la volontà della legge applicata al caso concreto: ora il famoso mugnaio di Potsdam non potrebbe più dire al re di Prussia Federico il Grande che a Berlino c’erano dei giudici, perché passerebbe per litigioso e nemico della conciliazione. Questa viene presentata in sostituzione della giustizia pubblica che con lo strumento del processo sancisce le ragioni ed i torti: ma le cose hanno la testa dura ed il comune modo di ragionare conosce le ragioni ed i torti, per quante conciliazioni si vogliano inventare. Infatti la conciliazione, anche procedimentalizzata come quella de qua, è accessoria al sistema della giustizia civile e funziona bene se la giustizia civile funziona; mentre, non funziona ed è fonte di forzature e di ingiustizia, laddove il sistema della giustizia civile non funzioni come accade dalle nostre parti.

  2. Nella presente nota si tratterà dunque dei limiti alla conciliazione di cui all’art. 12 comma 1 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, rappresentati dall’ordine pubblico e da norme imperative. Infatti secondo l’art. 12, “il verbale di accordo, il cui contenuto non è contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, è omologato, su istanza di parte e previo accertamento anche della regolarità formale, con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo”. Il presupposto della non omologabilità è indicato con formula che, parzialmente, ricalca quella del comma 1 dell’art. 1418 c.c. Dunque, il giudizio di omologazione che rappresenta la fase pubblica del procedimento di conciliazione, non si limiterà al controllo formale del rispetto delle regole procedurali. Infatti, poiché l’art. 12 del decreto legislativo n. 28/2010 parla di accertamento anche della regolarità formale, l’omologazione impingerà il merito della conciliazione sia pure limitatamente allo specifico profilo del rispetto dei principi di ordine pubblico e delle nome imperative. Del resto i vari giudizi di omologazione conosciuti dall’ordinamento, prevedono tipi di controllo di merito più o meno penetranti, quali la (passata) omologazione sugli atti societari (prima della modifica di cui all’art. 32, legge n. 340/2000), l’omologazione delle separazioni consensuali (art. 711 c.p.c.); l’omologazione della transazione nei giudizi di falso, ai sensi dell’art.1968. Più limitata ai profili formali del procedimento e dell’atto, l’omologazione dei lodi arbitrali di cui all’art. 825 c.p.c.

  3. La conciliazione con intervento e partecipazione del conciliatore rappresenta un caso di autonomia assistita della quale l’ordinamento offre numerosi esempi, come l’assistenza ad personam nelle ipotesi di assistenza-controllo-integrazione di ridotta capacità di agire (curatela dell’inabilitato, amministrazione di sostegno); e come nel settore della contrattazione di interesse generale, l’assistenza ai fini della deroga alle norme imperative della legge n. 392/1978 nelle locazioni abitative, di poi espunta dalla sentenza della Cote Costituzionale, ma tuttora ammessa nel parallelo settore dei rapporti agrari. Sul punto si tornerà nel seguito. Ora si osserva che la conciliazionetransazione assistita incontra i limiti generali della attività negoziale, corrispondenti, in positivo, dalla meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti, ed in negativo, dalla non contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume (art. 1343 c.c.), ove per il concetto assai sfumato di ordine pubblico si intende il complesso di principi, anche non codificati, che nell’interesse generale disciplinano la convivenza nella società e dei quali è garante lo Stato.1 Quanto alle norme imperative l’ambito di queste è più vasto del limite posto alla conciliabilità (ed alla transigibilità) della disponibilità dei diritti posto di cui all’art.1 comma 1 del decreto ed all’art. 1966 del codice, nel senso che i diritti indisponibili discendono da norme imperative mentre non vale il principio inverso, e non tutte le norme imperative attribuiscono diritti.

  4. In proposito occorre considerare i seguenti aspetti problematici posti dall’interprete dall’art. 12: - da tempo in dottrina ed in giurisprudenza si afferma che il principio della nullità degli accordi transattivi contrari a norme imperative (Cassazione civile, sez. unite, 3 aprile 2000, n. 90) non impedisce di transigere e rinunciare a diritti derivanti da norme di questo tipo (in tema di transazione, cfr. art.1966 c.c.) dopo che sono sorti (per esempio, in tema di locazioni e di indennità per la perdita dell’avviamento, e del diritto di prelazione), come risulta dalla costante interpretazione dell’art. 79, l. 392/78, costituente ormai ius receptum, secondo la quale la previsione di nullità di quella norma non opera quando le pattuizioni di maggior vantaggio per il locatore siano contenute in un accordo intercorso con il conduttore che già si trovi nella detenzione dell’immobile locato (Cass. 12154/92; 4709/91;

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    872/80; 5587/1990) e quindi siano intervenute in corso di rapporto (Cass. n. 683/1990): dunque può valere anche per la conciliazione ex D.L.vo n. 28/2010, il principio secondo il quale la legge vieta soltanto le pattuizioni tendenti ad...

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