Il binomio investigazioni difensive-giudizio abbreviato e i dubbi di legittimità costituzionale

AutoreRosamaria Cantore
Pagine693-699

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1. Con la sentenza che si annota, la Consulta affronta un’interessante questione di legittimità costituzionale rispetto all’art. 442 comma 1 bisc.p.p. - richiamato dall’art. 556 comma 1 c.p.p. - in riferimento agli artt. 3 e 111 commi 2 e 4 Cost., vale a dire l’utilizzabilità degli atti di investigazione difensiva, ai fini della decisione sul merito, nel corso del giudizio abbreviato “allo stato degli atti”.1

2. La questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Fermo, investe in particolare quello che i latini esprimevano con il brocardo “audiatur et altera pars”, ossia il principio del contraddittorio. Siamo di fronte ad uno dei principi cardine del “giusto processo”, nonché regola essenziale di un sistema “tendenzialmente accusatorio” che contrassegna con carattere di necessità la giurisdizione penale,2 qualificandosi come “contraddittorio nella formazione della prova”,3 quale strumento meno imperfetto per il raggiungimento della verità.

Tanto premesso, di questo principio si tende a distinguere un profilo oggettivo ed uno soggettivo. Il primo è espresso nella prima parte del comma 4 dell’art. 111 Cost., ove si dispone che “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”, mentre il secondo è racchiuso nel comma 3 dell’art. 111 Cost., laddove si prevede che la persona accusata di un reato abbia “la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico”.

Nell’uno caso la norma consacra il contraddittorio quale “regola metodologica” di conoscenza dialettica, nell’altro è stabilita una prescrizione funzionale alla tutela dell’imputato.

Tra i due aspetti, parte della dottrina tende a privilegiare quello oggettivo e con esso la funzione cognitiva in sede processuale; seguendo un’interpretazione rigorosa,4 tale principio rappresenta il canone minimo di ammissibilità delle prove, vietando l’ingresso nel processo di materiali conoscitivi unilateralmente formati.

Fatta questa breve, ma doverosa premessa sull’accezione del principio de quo, inquadriamo i termini della questione di legittimità costituzionale. Per il giudice rimettente, l’art. 442 comma 1 bis c.p.p., così come richiamato dall’art. 556 comma 1 c.p.p., violerebbe il principio del contradicere nella formazione della prova, nella parte in cui consente l’ingresso nel processo per fini decisori di atti formati unilateralmente, quali sono gli atti di investigazione difensiva, senza che operi il consenso dell’imputato come deroga.

Ora, certamente il difensore, nel momento in cui raccoglie e documenta le dichiarazioni di cui agli artt. 391 bis e 391 ter c.p.p., agisce nell’interesse del proprio assistito in assenza della controparte. Un loro utilizzo potrebbe trovare giustificazione nella disciplina delle deroghe al contraddittorio. Infatti, se da un lato il legislatore costituzionale ha fatto del contraddittorio una regola essenziale, dall’altro non lo ha reso un valore assoluto ed incondizionato. Di questo si trova conferma nel comma 5 dell’art. 111 Cost., ove il legislatore ha racchiuso le tre fondamentali deroghe: “La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputa-Page 694to o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.

Prescindendo dalle ultime due, quella che richiede maggiore attenzione, ai fini del nostro approfondimento, è quella fondata sul consenso dell’imputato.

Per taluni questa prima ipotesi è espressione della componente del contraddittorio intesa come garanzia individuale, quindi disponibile in capo al suo titolare.5

La sua formulazione soggettiva, parziale ed unilaterale con riferimento esclusivo all’imputato,6 non ha tardato a suscitare perplessità, in quanto, partendo dal presupposto che il nostro è un sistema processuale fondato sulla parità tra le parti, non appare corretto ritenere che il pubblico ministero sia privo di poteri in relazione all’acquisizione di elementi di prova formati unilateralmente dall’imputato e fatti entrare nel processo con efficacia probante a seguito del suo mero consenso.

Secondo un orientamento dottrinale, accogliere un’interpretazione letterale del comma 5 significherebbe autorizzare un sistema in cui solo per l’imputato il consenso sarebbe sufficiente ad operare la trasmutazione genetica di un atto di indagine in prova.7 Per tali ragioni risulterebbe doveroso il consenso del p.m. e delle altre parti private in ordine all’inserimento di materiale probatorio ottenuto dall’attività investigativa della controparte nel patrimonio conoscitivo del giudice.8 Diversamente, verrebbe leso il principio di parità e si smentirebbe lo stesso valore epistemologico del contraddittorio.

Il giudice rimettente, dal canto suo, non ritiene si possa qualificare tale principio come un diritto soggettivo attribuito al solo imputato, poiché esso è una garanzia metodologica, oltre che un valore processuale indisponibile. Prende in considerazione il significato del termine “consenso” nel linguaggio giuridico9 e ritiene che l’imputato possa rinunciare al contraddittorio, ma solo in relazione agli elementi di indagine contra se e non anche a quelli a lui favorevoli.

La Corte costituzionale, superando ogni dubbio di legittimità, sostiene che “il principio del contraddittorio nel momento genetico della prova rappresenta precipuamente uno strumento di salvaguardia del rispetto delle prerogative dell’imputato”: affermazione, questa, che non ha incontrato il favore di quanti, pur recuperando la già ricordata distinzione tra profilo soggettivo e oggettivo, colgono l’occasione per ribadire che esso è strumento posto a salvaguardia anche e non solo dell’imputato e che il suo consenso non può fungere da strumento di deroga rispetto alla necessaria attuazione del contraddittorio da un punto di vista oggettivo, che in quanto tale è indisponibile unilateralmente.10 Se di rinuncia si deve parlare, l’unica rinuncia ammessa è quella al contraddittorio nell’accezione soggettiva da parte dell’imputato, attraverso la manifestazione del consenso, purché questo rientri nell’ambito delle garanzie che gli competono in quanto parte.

Non si può non constatare che una distinzione rigorosa tra i due profili appare fuorviante. Per tale ragione appare condivisibile la sentenza con cui la Corte ha stabilito che “l’enunciazione del comma 4 dell’art. 111 Cost., secondo cui nel processo penale la formazione della prova è regolata dal principio del contraddittorio, non comporta che il cosiddetto profilo oggettivo del medesimo non sia correlato con quello soggettivo e non costituisca comunque un aspetto del diritto di difesa, come attesta eloquentemente la circostanza che il successivo comma 5, nell’ammettere la deroga al principio, fa riferimento innanzitutto al consenso dell’imputato”.11

Da ultimo, si deve riflettere sull’incipit del comma 5 dell’art. 111 Cost.: “la legge regola i casi […]”. L’imputato non è padrone del contraddittorio, tale che la sua semplice manifestazione di volontà abbia la capacità di farlo venir meno: è il legislatore che deve prevedere casi e presupposti in presenza dei quali il consenso dell’imputato valga come deroga, capace di fare entrare nella piattaforma probatoria elementi di prova formati unilateralmente.

3. Com’è noto, al termine di una fase investigativa “necessaria” e “tendenzialmente completa”, il processo può defluire verso modalità di definizione alternative, come la richiesta di giudizio abbreviato.12

È possibile affermare che, in tale rito, come riformato dalla cosiddetta “legge Carotti”, l’imputato disponga di un vero e proprio diritto allo svolgimento del rito “sommario”,13 rinunciando al contraddittorio ed accettando di essere giudicato sulla base degli atti di indagine raccolti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari, nonché delle prove assunte durante l’udienza preliminare.

Tra le novità introdotte dalla “legge Carotti”, quella che si impone alla nostra attenzione è il comma 1 bis inserito nell’art. 442 c.p.p. Con questo comma,14 a parere della dottrina, il legislatore ha inteso chiarire quale materiale il giudice debba prendere in considerazione ai fini della decisione, rendendo irrilevante l’inosservanza di tutte le disposizioni volte ad attuare il contraddittorio per la prova.15 Sono così utilizzabili ai fini della decisione gli atti contenuti nel fascicolo che il pubblico ministero deposita unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 comma 2 c.p.p.),16 gli atti delle indagini suppletive (art. 419 comma 3 c.p.p.) e le prove assunte nell’udienza.17

La piattaforma conoscitiva così formata si arricchisce anche del materiale probatorio precostituito dall’ufficio difensivo,18 in quanto il comma 1 bis va letto alla luce della riforma in tema di investigazioni difensive attuata dalla l. 7 dicembre 2000, n. 397.19

Dalla lettura combinata delle due riforme legislative, si può giungere ad affermare l’utilizzabilità per fini decisori nel giudizio abbreviato dei risultati dell’attività di investigazione difensiva, conclusione questa corroborataPage 695 da diverse pronunce giurisprudenziali di legittimità e di merito.20

Ciononostante, con la sentenza in epigrafe si ripropone il dibattito sul difficile rapporto tra investigazioni difensive e giudizio abbreviato, nonché i dubbi di legittimità costituzionale che nascono dall’impiego degli atti di indagine privata nel rito a prova contratta che già in altre occasioni la Corte era stata chiamata ad affrontare: sulla base delle precedenti decisioni, si può ravvisare un orientamento uniforme della giurisprudenza costituzionale che ammette l’ingresso nel giudizio abbreviato dei risultati dell’attività dei difensori delle parti private.21

La dottrina si presenta invece divisa in due orientamenti opposti.

Alcuni autori ritengono che l’interesse alla semplificazione del...

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