L"attenuante del risarcimento del danno. Parte seconda

AutoreEdgardo Colombini
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Di contro alla cristallizzazione* giurisprudenziale favorevole alla tesi della non applicabilità della attenuante della riparazione del danno prevista dall'art. 62 n. 6 prima parte c.p. nel caso di risarcimento effettuato dalla compagnia assicuratrice dell'imputato si è comunque andato delineando - pur minoritariamente - un orientamento del tutto opposto.

Se ne desume l'esistenza, ad esempio, da una decisione della stessa IV Sezione della Corte Suprema del 29 luglio 1986 (n. 7789 in questa Rivista 1986, pag. 784) ove, dopo essersi affermato (sia pure con una qualche esagerazione, secondo noi, viste le sentenze dianzi ricordate anche proprio della medesima Sezione) che «mentre l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p. è applicabile anche se il risarcimento sia stato effettuato dall'assicuratore, sempre che l'assicurazione sia stata stipulata dall'imputato», si rientra comunque nell'alveo tradizionale ripetendo che l'attenuante stessa non può essere riconosciuta, quando il risarcimento sia compiuto da assicuratore, col quale il contratto di assicurazione r.c. sia stato stipulato non dall'imputato, ma da un terzo, proprietario del veicolo».

A favore della applicabilità della attenuante del risarcimento del danno anche se effettuato da una compagnia di assicurazione ebbe a pronunciarsi - sia pur soltanto con un richiamo indiretto - la stessa Sezione della Corte Suprema nella sua sentenza n. 8002 del 6 lgulio 1988 (in questa Rivista 1989, pag. 111), nel caso di un dipendente delle Ferrovie dello Stato, condannato per omicidio colposo senza la concessione della attenuante di cui all'art. 62 n. 6 prima parte c.p., ancorché l'Amministrazione stessa avesse provveduto al risarcimento del danno, di contro alla tesi - disattesa - dell'imputato, secondo il quale il rapporto esistente fra l'Amministrazione delle Ferrovie dello Stato ed il proprio dipendente dovrebbe ritenersi in un certo senso analogo a quello instaurato tra un ente assicuratore ed un assicurato, dal momento che il versamento alle parti civili è stato effettuato attingendo anche al fondo di solidarietà costituito da ritenute sullo stipendio dei ferrovieri e tenendo presente pure il fatto che detta amministrazione può operare rivalsa nei confronti del dipendente medesimo».

Sosteneva infatti la Corte che questa tesi non poteva trovare accoglimento a tale scopo ricordando come «la ratio che spinse il legislatore a stabilire l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p. derivasse dalla necessità di valutare la condotta del colpevole di un reato il quale prima del giudizio abbia provveduto a riparare il danno arrecato mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni ovvero si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere od attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato come sintomo di una sua attenuata capacità a delinquere (R.G. p. I, pag. 114)».

Si aggiungeva quindi che, «considerata la natura squisitamente soggettiva di detta attenuante (e su questo punto torneremo specificamente in prosieguo, atteso che proprio su questa qualificazione si è molto spesso incentrato lo scontro fra le opposte tesi sull'argomento di cui ci stiamo occupando), non tanto dal punto di vista pratico, come causa che facilita il soddisfacimento degli interessi della persona offesa dal reato, quanto dal lato psicologico e volontaristico, ossia della condotta del colpevole dopo il reato, essa non può ovviamente essere riconosciuta nella ipotesi che il risarcimento del danno sia avvenuto ad opera di un terzo, quale un privato datore di lavoro od una pubblica amministrazione dalla quale il colpevole dipenda, per essere detto terzo tenuto a rispondere civilmente dei danni derivanti dall'illecito commesso dal dipendente, come è avvenuto nella specie. Poiché il risarcimento del danno ad opera di un assicuratore dipende dalla denuncia dell'assicurato, ossia da un atto di libera determinazione di quest'ultimo, che abbia così manifestato la propria volontà riparatrice, il rapporto fra dipendente e pubblica amministrazione che abbia provveduto a termini di legge a risarcire il danno cagionato da detto dipendente non può evidentemente equipararsi a quello intercorrente fra assicurato ed assicuratore».

Come si rileverà, qui si andava addirittura al di là del problema del risarcimento pagato dall'assicuratore anziché dall'imputato o di quello della precostituzione della possibilità di effettuare tale risarcimento mediante la stipulazione di un contratto assicurativo antecedentemente alla commissione del reato (argomento già individuato in alcuna delle sentenze in precedenza ricordate e che troveremo ancora in altre decisioni che avremo modo di citare) individuando invece la volontà riparatrice dell'imputato - quando il risarcimento sia effettuato dal suo assicuratore - nella denuncia del fatto all'assicuratore medesimo.

A favore della applicabilità dell'attenuante comune di cui all'art. 62 n. 6 prima parte c.p. ebbe anche a pronunciarsi la III Sez. della Corte di cassazione penale, affermando che tale «circostanza non è collegata necessariamente con la cosiddetta resipiscenza del reo, potendo trovare la sua giustificazione in una mera utilità del danneggiante o soltanto nelle ampie disponibilità di quest'ultimo - avendo quindi contenuto (natura) oggettiva ed effetti soggettivi (art. 70 c.p.) - dal che deriva che quando il risarcimento sia effettuato da un terzo (ente assicuratore) la circostanza medesima va applicata se la riparazione sia riferibile al colpevole, nel senso che questi ne abbia coscienza e mostri la volontà di far proprio il risarcimento stesso» (18 dicembre 1991 n. 12760 in questa Rivista 1992, pag. 938).

Su questa situazione di contrasto giurisprudenziale è calata la decisione della Corte costituzionale cui abbiamo accennato, decisione che, come si è visto, non è stata di declaratoria di incostituzionalità essendosi invece affermata l'infondatezza della questione: decisione, quindi, non definitiva, sulla quale si potrà comunque pur sempre tornare allo scopo di arrivare ad una decisione più netta e precisa.

Ma è una decisione che - come abbiamo accennato - si appoggia comunque su elementi apprezzabili in tutt'altra maniera, eliminati o ridimensionati i quali, tutto il ragionamento finisce con il mostrare la sua fragilità.

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E ci spieghiamo proprio partendo dall'ultimo degli argomenti addotti dai giudici della Consulta.

Si legge infatti nella motivazione della decisione citata che «decisiva», ai fini di una corretta lettura della disposizione censurata, è la considerazione che l'interpretazione dell'attenuante in chiave meramente soggettiva, che ravvisasse in essa una finalità rieducativa, contrasterebbe con l'art. 3 della Costituzione sotto i molteplici profili evidenziati dal giudice remittente e dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione. Ne seguirebbe infatti un'arbitraria svalutazione dell'istituto della assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti (L. 24 dicembre 1969 n. 990), istituto che svolge nel nostro ordinamento una insostituibile funzione riequilibratrice, in attuazione degli imperativi contenuti nell'art. 3 della Costituzione.

Alla base della scelta di politica sociale a favore della assicurazione obbligatoria sta l'enorme sviluppo che ha avuto negli ultimi decenni la motorizzazione civile. Se il fine preminente è quello della tutela delle vittime della circolazione, non è disgiunta da tale scelta, ed anzi le è inscindibilmente connessa, la creazione di un contesto di generale sicurezza patrimoniale (alla sicurezza tecnica provvedono altri istituti) quale condizione minima di accettabilità degli attuali livelli del fenomeno. Di qui, appunto, l'obbligo imposto ad ogni proprietario di veicolo di trasferire ad un imprenditore specializzato, sottoposto a penetranti controlli pubblici, il rischio della propria responsabilità civile, affinché tale rischio sia ripartito fra tutti i proprietari di mezzi di trasporto a motore in modo che il sacrificio di ciascuno sia ridotto al minimo, e siano corrispondentemente massimizzate le garanzie patrimoniali dei danneggiati, secondo un principio di solidarietà che già questa Corte ha riconosciuto come fondamento della L. 990 del 1969 (sentenze n. 560 del 1987; n. 77 del 1983 e n. 56 del 1975)».

Ebbene - prosegue la sentenza della Corte costituzionale - l'interpretazione seguita dal giudice remittente, nell'imporre all'imputato, con la cogenza che è propria delle norme penali, l'onere di non avvalersi dell'assicurazione e di provvedere personalmente al ristoro dei danni, finirebbe col negare l'anzidetta funzione della assicurazione obbligatoria proprio nei frangenti nei quali se ne rende più manifesta l'essenzialità: danni alle persone e conseguenti obblighi risarcitori eccedenti le normali condizioni patrimoniali dei proprietari di veicoli. E così, il risarcimento del danno, strutturato nell'ordinamento generale attorno al principio di solidarietà, verrebbe privato di quell'insieme organizzato di garanzie patrimoniali che per volontà del legislatore indefettibilmente l'accompagnano, e ridotto a prestazione personale del danneggiante isolatamente considerato, secondo una visione premoderna dell'istituto dell'assicurazione della responsabilità civile in questo settore; una visione che non solo comporterebbe una macroscopica disparità di trattamento tra danneggianti a seconda delle loro condizioni patrimoniali, ma si risolverebbe in un inammissibile restringimento del diritto alla resipiscenza o al ravvedimento che verrebbe riservato alle sole persone provviste di mezzi finanziari che siano in grado di provvedere personalmente all'integrale ristoro dei danni. Ne risulterebbero, simmetricamente, coinvolte le parti offese: la disposizione censurata, anziché assicurare quella tutela risarcitoria completa e tempestiva che il testo dell'art. 62 n. 6 prima parte c.p...

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