L"attenuante del risarcimento del danno. Parte prima

AutoreEdgardo Colombini
Pagine289-296

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La decisione della Corte costituzionale del 23 aprile 1998* (n. 138, in questa Rivista 1998, 555) in tema di attenuanti comuni, quando il risarcimento del danno venga effettuato da una compagnia assicuratrice, solo apparentemente pensiamo possa aver posto fine ad una lunga disputa sull'argomento, disputa che vedeva peraltro una consistente giurisprudenza attestata su ben diverso orientamento.

Per parte nostra riteniamo infatti che la questione sia tutt'altro che chiusa e che per una chiara e definitiva affermazione del principio - incontestabilmente esatto - indicato dai Giudici della Consulta si debba comunque preferire, pervenendovi, una precisa declaratoria di incostituzionalità dell'art. 62, n. 6, prima parte, c.p. nella attuale formulazione con la conseguente rielaborazione della disposizione codicistica.

Il ragionamento adottato dalla Corte costituzionale dà adito, invero, a qualche perplessità, capace di rendere incerta la possibilità di sostenere per qualsiasi caso (e qui sta uno dei nodi fondamentali del problema, secondo il nostro punto di vista) la pacifica applicabilità del principio di superiorità della Costituzione, che «impone ai giudici di scegliere, tra più soluzioni astrattamente possibili, quella che pone la legge al riparo dai vizi di legittimità costituzionale» (ibid. p. 557): la via breve cioè adottata nella situazione di specie dai Giudici della Consulta per dichiarare «infondata, in riferimento all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 62, n. 6, prima parte, c.p. nell'interpretazione secondo cui andrebbe esclusa l'applicabilità della attenuante de qua allorché al risarcimento del danno cagionato alla persona offesa abbia provveduto, in forza di contratto di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi, la compagnia assicuratrice».

Principio, quello indicato della Corte costituzionale, che già era stato prospettato anche dalla Corte di cassazione, secondo la quale «se una norma di legge sia suscettibile di più interpretazioni, di cui una darebbe alla norma un significato costituzionalmente illegittimo, il dubbio è soltanto apparente e deve essere superato e risolto interpretando la norma in senso conforme alla Costituzione e alle leggi costituzionali» (Cass. civ. 10 marzo 1971, n. 674, in Giust. civ. Mass. 1971, 362; Cass. civ., Sez. lav. 5 maggio 1995, n. 4906).

Si tratta di una tecnica decisionale che non ci persuade e - prima ancora di chiarire quali siano le incertezze riscontrabili nella situazione di specie a seguito della decisione adottata - pensiamo sia opportuno domandarci se la stessa sia opportuna o meno in ogni caso.

Se guardiamo all'art. 134 della Costituzione, dobbiamo subito rilevare come si siano prospettate da parte dei padri costituenti esclusivamente decisioni nette. Quando, infatti, si dice che la Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi non si può non pensare che a indicazioni precise: una disposizione di legge o è costituzionale o non lo è e la Corte è giustappunto chiamata ad una decisione proprio su questo.

Riferimento ad una alternativa netta che, in fondo, ritorna nell'art. 23 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) ove si dispone che «nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza, indicando: a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge dello Stato o di una regione, viziato da illegittimità costituzionale; b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate».

È una legge - o una parte di legge - che può essere incostituzionale e non una delle sue possibili interpretazioni; interpretazioni che sono successive alla legge, che sono mutevoli e variegate nel tempo e nello spazio, che possono essere giuste come errate.

Ancora una volta non può quindi non pensarsi che una norma o è costituzionalmente corretta o non lo è.

Ed altre considerazioni soccorrono a confortarci nella opportunità di avere sempre indicazioni nette su un argomento così delicato quale quello della costituzionalità o meno di una disposizione di legge.

Partiremo dalle conseguenze riflesse collegate alla fondamentale distinzione esistente fra le due tipologie di decisioni adottabili dai giudici della Consulta.

Mentre quando la Corte costituzionale ritiene incostituzionale una disposizione di legge la sentenza emessa dai giudici della Consulta fa scattare il disposto dell'art. 136 della Carta Fondamentale in forza del quale la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, completamente differente è la situazione che si verifica quando gli stessi giudici ritengono immune da qualsiasi vizio di incostituzionalità la disposizione portata al loro esame nei termini e nei limiti in cui è stata posta la questione.

Esattamente il MARTINES, (Diritto Costituzionale, Ed. Giuffrè, p. 554) sostiene in proposito che «la Corte non può dichiarare la legittimità della disposizione perché - se così facesse - si precluderebbe, in radice, la possibilità di un riesame della sua legittimità nella eventualità che la stessa parte in un altro giudizio o una parte diversa (ovvero il giudice ex officio) ripropongano la questione adducendo altri motivi di incostituzionalità. Non solo, ma può anche accadere (ed è accaduto) che la Corte, che aveva dichiarato la infondatezza della questione, successivamente muti giurisprudenza e, re melius perpensa, dichiari la illegittimità della disposizione legislativa, ancorché la questione che le è stata sottoposta sia identica a quella prima respinta».

Si sarebbe potuto prevedere nella Carta costituzionale che la Corte dichiarasse esplicitamente la costituzionalità di una norma, sì da metterla al riparo da qualsiasi altra contestazione futura, ma si è indubbiamente ritenuto più saggio evitare questa forma di patente di costituzionalità lasciando che la legittimità di una disposizione di legge potesse essere «fatta valere (e riconosciuta dalla Corte) per altri motivi o,Page 290 addirittura, per gli stessi motivi, in seguito ad un mutamento della giurisprudenza dei giudici costituzionali, sempre possibile, ove si pensi, fra l'altro, al rinnovarsi della composizione della Corte, i cui membri non sono nominati a vita, ma durano in carica nove anni e non possono, alla scadenza, essere nuovamente nominati» (MARTINES, ibid., p. 555).

La sentenza con la quale, quindi, la Corte costituzionale - considerati inesistenti vizi di costituzionalità - decide sul ricorso non afferma la costituzionalità della norma impugnata, trattandosi di un puro e semplice rigetto del ricorso stesso risultanto infondata la questione prospettata.

Questa decisione non ha inoltre la possibilità di essere efficace erga omnes valendo soltanto nel giudizio nel corso del quale la questione è stata sollevata, nel senso che il giudice a quo sarà tenuto ad applicare la legge rispetto alla quale la questione stessa era stata proposta.

Implicita conferma si può avere nel fatto che la Costituzione espressamente indica all'art. 136 le conseguenze delle sentenze che dichiarano la illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge stabilendo che la norma stessa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, decisione che deve essere comunicata alle Camere ed i Consigli Regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali.

Nulla si dispone invece per le decisioni con le quali viene dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale: il che stata significare che riprenderà il suo corso il giudizio in occasione del quale venne sollevata la questione stessa e che dovrà applicarsi alla situazione di specie la norma nei confronti della quale era stata sollevata l'eccezione di incostituzionalità.

Secondo lo schema delineato - ricorda il MARTINES (ibid. p. 560) con il quale concordiamo - il giudizio innanzi alla Corte costituzionale si conclude quindi o con la dichiarazione di illegittimità della disposizione legislativa o con la dichiarazione di infondatezza della questione. Tertium non datur, o meglio, non dovrebbe darsi

.

I giudici della Consulta sono invece usciti dallo schema predisposto dai costituenti imboccando percorsi che portano in definitiva a quelle incertezze cui abbiamo accennato e che riscontreremo proprio anche nella situazione di specie che ci accingiamo ad esaminare.

Ma come tutto questo può avvenire?

I termini ed i motivi della istanza con cui viene sollevata la questione di incostituzionalità di una disposizione di legge rappresentano il thema decidendum del giudizio dinanzi alla Corte.

Orbene «poiché i termini ed i motivi della istanza - osserva il MARTINES (ibid.) - hanno riguardo ad una disposizione legislativa della quale denunciano l'illegittimità costituzionale, ecco che - prima di formularli - occorre trarre in via interpretativa dal testo legislativo la norma; in altre parole, la parte in giudizio, avendo ritenuto che da un testo legislativo X è da trarre la norma Y e che la norma Y è costituzionalmente illegittima, solleva la questione di legittimità costituzionale. La Corte, in tal modo, è chiamata a giudicare nei termini e per i motivi in cui fu sollevata la questione; vale a dire, più semplicemente, dovrà decidere se la norma Y sia o no in contrasto con la Costituzione».

Su questa divaricazione fra legge e norma si è praticamente incardinata la corrente di pensiero che ha portato a quella fuoriuscita - dallo schema predisposto dai costituenti - che noi lamentiamo quale fonte di incertezze.

Quando invero si afferma, come fa il MARTINES (ibid. p. 63) che la norma giuridica, «e cioè una prescrizione di carattere generale ed astratta che identifica ed enuncia...

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