Un Aspetto Negoziale Della Dinamica Probatoria: La Rinuncia All'Assunzione Di Un Mezzo Di Prova Come Temperamento Del C.D.'Principio Dispositivo

AutorePaolo Grillo
Pagine118-121
118
dott
2/2016 Arch. nuova proc. pen.
DOTTRINA
UN ASPETTO NEGOZIALE
DELLA DINAMICA PROBATORIA:
LA RINUNCIA ALL’ASSUNZIONE
DI UN MEZZO DI PROVA COME
TEMPERAMENTO DEL C.D.
“PRINCIPIO DISPOSITIVO”
di Paolo Grillo
SOMMARIO
1. Dispositività e contraddittorio oggettivo nel rito proces-
suale a prevalente caratterizzazione accusatoria: qualche
considerazione preliminare. 2. La rinuncia alla prova prima
dell’introduzione del comma 4-bis nell’art. 495 c.p.p.: l’orien-
tamento unilateralistico. 3. Segue: l’orientamento consen-
sualistico. 4. La novella del 2000: un ulteriore spazio per la
negozialità nel rito ordinario. 5. Considerazioni conclusive:
la negozialità in sede di rinuncia alla prova si contrappone
al principio della libera disponibilità dei mezzi probatori?.
1. Dispositività e contraddittorio oggettivo nel rito pro-
cessuale a prevalente caratterizzazione accusatoria:
qualche considerazione preliminare
L’art. 111 Cost., come novellato dalla legge costituzio-
nale n. 2 del 1999, prevede, nel comma 4, che “il processo
penale è regolato dal principio del contraddittorio nella
formazione della prova” (1).
Il contraddittorio c.d. oggettivo, come è noto, costi-
tuisce uno dei capisaldi di ogni schema processuale di
stampo accusatorio, ed è altrettanto noto che proprio a
quest’ultimo modello, non ancora all’epoca costituziona-
lizzato, il legislatore delegante del 1987 ha inteso ispirarsi
nel plasmare le forme di quello che sarebbe poi divenuto
il nuovo codice di rito del 1988 (l’aggettivo “nuovo” oggi
non ha più ragion d’essere, tenuto conto del fatto che sono
trascorsi ben ventisette anni dal suo battesimo).
Il metodo del contraddittorio oggettivo nella forma-
zione della prova porta con sé un importante corollario,
anch’esso considerato un connotato essenziale del proces-
so penale accusatorio: il cosiddetto principio dispositivo
(2). La ricerca e l’introduzione dei mezzi di prova è onere
delle parti, poiché queste ultime dominano la scena sulla
quale il giudice “terzo”, dall’alto del suo scranno, sovrin-
tende e sorveglia con imparzialità (3).
I poteri del giudice, in termini di introduzione e as-
sunzione dei mezzi di prova sono conseguentemente visti
come residuali – vedi, ad esempio, l’art. 507 c.p.p. – e ri-
spondono ad una esigenza di superiore logica processuale,
derivante dalla f‌inalità stessa del “processo criminale”:
accertare se è stato commesso un illecito penale senza
che ciò possa risultare impedito dalle strategie probatorie
delle parti, pubblica e private.
Il meccanismo di recupero ex off‌icio del mezzo di pro-
va “assolutamente necessario” (per richiamare il detta-
to dell’art. 507 c.p.p.) ai f‌ini della decisione della causa,
quindi, viene giustamente collocato nel sistema in funzio-
ne di valvola di sicurezza: come frequentemente si suole
dire, l’interesse cui risponde il processo penale è di rango
sovraordinato – accertamento e repressione dei reati – ri-
spetto agli interessi espressi dalle parti che a vario titolo
vi partecipano (4).
Ne consegue che il giudice, soltanto al termine dell’as-
sunzione delle prove che le parti – in virtù del richiamato
principio dispositivo – si sono curate di “offrirgli” per de-
cidere, procede d’uff‌icio ad acquisire quelle che appaiono
indispensabili, temperando con il proprio potere autoritati-
vo ciò che, altrimenti, sarebbe integralmente lasciato all’i-
niziativa – sollecita o negligente – delle parti stesse (5).
Sulla natura dispositiva del potere di iniziativa probato-
ria, invero, non vi è stata assoluta concordia d’opinioni (6).
Un indirizzo dottrinario (7), infatti, ha ritenuto di
esprimere dubbi e perplessità, sia sulla presenza di un
“diritto” alla prova, sia sulla stessa esistenza di una par
condicio tra le parti, che legittima queste ultime a chiede-
re l’introduzione di mezzi di prova, agendo su un piano di
sostanziale eguaglianza di poteri. L’onere della prova del
p.m., si è affermato, non vale a trasformare quest’ultimo
in qualcosa di simile all’attore di un processo di stampo
civilistico: il p.m. ha il dovere di esercitare l’azione penale,
e l’onere di superare la presunzione di innocenza dell’im-
putato. Secondo questa impostazione, pertanto, non vi
sarebbe alcun potere dispositivo in tema di prove – ontolo-
gicamente incompatibile con il residuale contro-potere di
iniziativa off‌iciosa del giudice – a meno che tale locuzione
non si voglia adoperarla soltanto per rimarcare la libertà
di strategia processuale, intesa come somma delle facoltà
di chiedere o di non chiedere al giudice l’ammissione di
uno specif‌ico mezzo di prova.
La prospettiva per ultimo illustrata, come si vede, si pone
all’estremo opposto di quella, forse più comunemente accet-
tata, che parte dal presupposto dell’esistenza del “potere” di
disporre dei mezzi di prova, e cioè di chiederne l’ammissio-
ne al giudice, per individuare la caratteristica più saliente
del rito di stampo prevalentemente accusatorio. Quest’ulti-
mo, anzi, è governato da un articolato “diritto delle prove”,
funzionale a regolare minuziosamente ogni singola fase del
procedimento probatorio: dalla richiesta di ammissione del
mezzo di prova alla valutazione del risultato probatorio.
La verità, come un vetusto adagio insegna, sta nel mez-
zo: le parti possiedono il diritto (e l’onere) di chiedere al
giudice l’ingresso delle prove nel processo; il giudice ha
il potere/dovere di decidere in tal senso e, nei limiti che
la legge gli impone, può anche attivarsi d’uff‌icio quando
sia “assolutamente necessario”, cioè senza prevaricare o
scavalcare l’iniziativa delle parti.

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