Appunti sul giudicato penale

AutoreLuigi Fadalti/Marco Rebecca
Pagine3-9

    Entrambi gli Autori si assumono la responsabilità dell'intero articolo. In particolare Luigi Faldati ha redatto i paragrafi 1-8; Marco Rebecca i paragrafi 9-14.


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@1. Giudicato e cosa giudicata

Cosa giudicata è l'accertamento operato da una decisione giudiziaria immutabile, è la "fotografia" giudiziaria, non più soggetta a modifica, di un fatto storico-empirico.

Suole distinguersi - in dottrina - tra giudicato formale e giudicato sostanziale.

Il giudicato formale è la decisione (tendenzialmente) immodificablie, temprata attraverso cognizioni giudiziarie successive o, comunque, resa "stabile" dall'esaurimento (od in ogni caso dall'ulteriore non esperibilità) dei mezzi di impugnazione. Il concetto di cosa giudicata formale va definito in chiave di irrevocabilità, con riferimento sia alle pronunce sottratte ad ogni gravame, ordinario e straordinario, sia a quelle inoppugnabili in via ordinaria, ma ancora passibili di impugnazione straordinaria 1.

Giudicato sostanziale, invece, è il decisum, ossia la questione che è oggetto della decisione, la quale assume autorità di cosa giudicata.

È da chiedersi, anzitutto, se l'acquisto dell'autorità di cosa giudicata (giudicato sostanziale) presupponga necessariamente il raggiungimento dell'irrevocabilità, ossia postuli il perfezionamento del giudicato formale.

Occorre, sul punto, osservare che l'acquisto di autorità di cosa giudicata è - in linea di principio - svincolato dall'esperimentazione ovvero dall'esaurimento di tutti i mezzi impugnatori. In altre parole, il giudicato sostanziale ben potrebbe formarsi anche dopo il primo grado di giudizio: non vi sono argomenti decisivi, teorici e logici, in contrario.

È vero, invece, che il momento formativo del giudicato sostanziale è determinato dalle scelte discrezionali del legislatore, il quale è libero di collegare l'effetto sostanziale ad un qualunque grado di giudizio, non necessariamente all'ultimo. L'opzione, dunque, è di tipo politico.

Nell'ordinamento italiano, per scelta - appunto - "politica" (e come meglio si vedrà in seguito) l'autorità di cosa giudicata è subordinata al passaggio in giudicato della sentenza, cioè alla formazione del giudicato formale.

Altra questione di rilievo è quella relativa alla tipologia degli atti suscettibili di dar luogo alla cosa giudicata. In primis, naturalmente, vi sono le sentenze, atti giudiziari per definizione, che attuano nel caso concreto l'astratta previsione di legge.

Tuttavia, la decisione che produce cosa giudicata non è necessariamente una sentenza: basti pensare all'ordinanza che applica o nega una causa di estinzione del reato o della pena in sede esecutiva (art. 672 c.p.p.) ovvero alla sentenza di cui all'art. 68 c.p.p. 2 od al decreto di cui all'art. 36 c.p.p.3; questione affatto particolare, poi, è costituita dal c.d. "giudicato cautelare", sul quale si tornerà più oltre.

@2. Giudicato ed irrevocabilità

Il codice di rito disciplina il giudicato nel titolo primo del libro decimo 4.

L'art. 650 primo comma stabilisce quanto segue:

salvo che sia altrimenti disposto, le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili

. A mente dell'art. 648 «sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione».

La disposizione normativa si riferisce alle sentenze pronunziate in giudizio, tra esse comprendendosi quelle pronunziate a seguito di giudizio dibattimentale e di rito abbreviato, oltre alle sentenze di patteggiamento. Sono escluse le sentenze di non luogo a procedere.

Ancora, non merita di essere sorvolata la questione relativa alla portata giuridico-semantica del termine "irrevocabile". La sentenza irrevocabile non è mai connotata da irrevocabilità assoluta ovvero da una stabilità irretrattabile: il giudicato si forma, infatti, anche se la res iudicata è ancor passibile di formare oggetto del procedimento di revisione.

Il secondo comma dell'art. 648 c.p.p. dispone che «se l'impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l'ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso».

Su questo specifico punto, merita un commento una recente pronunzia delle Sezioni Unite, secondo cui la remissione di querela estingue il reato anche se effettuata in pendenza di ricorso per Cassazione dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte 5. Unica condizione è che il ricorso de quo sia tempestivo, cioè ottemperi ai termini di cui all'art. 585 c.p.p. Le SS.UU. osservano, in particolare, che la remissionePage 4 opera fino alla pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna, la quale diviene tale solo nel momento in cui interviene ordinanza o sentenza che dichiari inammissibile il ricorso. Quest'orientamento - peraltro aderente alla lettera del secondo comma dell'art. 648 - espone il fianco - tuttavia - ad una critica di ordine sistematico. La giurisprudenza di legittimità, infatti, afferma che - nel caso di impugnazione inammissibile - il tempo intercorrente tra la pronunzia della sentenza impugnata e la declaratoria d'inammissibilità non può giovare al fini della prescrizione 6: ciò in quanto l'inammissibilità originaria del ricorso per Cassazione (ad esempio, per manifesta infondatezza dei motivi) non consentirebbe il formarsi di un valido rapporto di impugnazione. Qui si annida - nostro avviso - una contraddizione, una sorta di "cortocircuito" logico: non pare rigoroso - in punto di diritto - affermare la tempestività della remissione di querela successiva ad impugnazione inammissibile (secondo un orientamento ermeneutico - ripetesi - ancorato al tenore letterale della norma) e, nel contempo, spogliare di giuridico effetto a fini prescrizionali la medesima tempestiva impugnazione, pur se dichiarata inammissibile dal giudice ad quem.

Infine, ex art. 648, terzo comma, «il decreto penale di condanna è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l'ordinanza che lo dichiara inammissibile».

È appena il caso di osservare come, a mente dell'art. 463 c.p.p., qualora il decreto sia stato pronunziato a carico di più persone imputate dello stesso reato, l'esecuzione rimanga sospesa nei confronti di coloro che non hanno proposto opposizione sino a quando il giudizio conseguente all'opposizione proposta da altri coimputati non sia definito con pronuncia irrevocabile. In buona sostanza, l'opposizione al decreto penale proposta da uno dei coimputati giova a tutti, con ciò evitando che il decreto diventi irrevocabile e, quindi, precludendo la formazione della cosa giudicata.

@3. Irrevocabilità ed esecutività: in particolare sentenza di non luogo a procedere e provvedimento di archiviazione

Sebbene sotto il profilo logico e sistematico le due nozioni non coincidano, l'esecutività di una sentenza è strettamente legata alla sua irrevocabilità. L'art. 650, secondo comma specifica che «le sentenze di non luogo a procedere hanno forza esecutiva quando non sono più soggette ad impugnazione»: pur essendo escluse dal novero dei provvedimenti giudiziari suscettibili di diventare irrevocabili (sentenze e decreti penali, menzionati dal primo comma dell'art. 650), di fatto (se si esula dal distinguo formalistico della norma) divengono "esecutive" al verificarsi degli stessi presupposti previsti per le "altre" sentenze.

Con riguardo, in particolare, alle sentenze di non luogo a procedere, la recente giurisprudenza di legittimità ha affermato che, quando la sentenza emessa a norma dell'art. 425 c.p.p. non sia più soggetta ad impugnazione (e non ricorra alcuna delle ipotesi di cui all'art. 345 c.p.p. in tema di sopravvenienza della condizione di procedibilità in origine mancante) è precluso l'esercizio dell'azione penale in ordine al medesimo fatto, ancorché diversamente qualificato, nei confronti della stessa persona 7.

Conformemente, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che la sentenza di non luogo a procedere è connotata da uno specifico effetto preclusivo, rimuovibile solo sulla base dei particolari presupposti previsti dall'art. 434 c.p.p. per la revoca 8.

L'efficacia preclusiva potenzialmente propria delle sentenze di non luogo a procedere risulta in perfetta consonanza con la fisionomia assunta dall'udienza preliminare, in cui di tutto rilievo sono sia il sindacato di merito del giudice sia la portata delle acquisizioni probatorie. Sarebbe - riteniamo - del tutto incongruo che ad un'udienza in cui così significativo è l'accertamento giurisdizionale non venisse riconosciuto effetto preclusivo (quanto meno) analogo a quello della regiudicata.

Simili considerazioni possono essere svolte per il provvedimento di archiviazione: pare ragionevole ritenere che il P.M. potrebbe chiedere il rinvio a giudizio (dello stesso indagato per il medesimo fatto) solo sulla base di ulteriori e diversi elementi rispetto a quelli già considerati.

@4. Ne bis in idem

Alla formazione del giudicato sortisce un importante effetto di ordine processuale: la stessa persona non può essere giudicata una seconda volta per il medesimo fatto, come previsto dall'art. 649 c.p.p. Si è detto «di ordine processuale», per significare che l'eventuale successiva azione penale sarebbe improcedibile: si tratta di un effetto che opera solo in procedendo e che nulla ha a che fare con il giudicato sostanziale, cioè con l'autorità di cosa giudicata.

Il principio del ne bis in idem può assumere forme diverse nei diversi ordinamenti.

Nei sistemi di common law il ne bis in idem si traduce e strettamente si raccorda nell'obbligo dello stare decisis: il giudice adito per secondo dovrà pronunziare una decisione del tutto identica rispetto a quella del suo predecessore. Così inteso, il principio del ne bis in idem si carica di una colorazione...

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