Il procedimento applicativo di una misura cautelare nei confronti di un ente

AutoreFrancesco Prete
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    Relazione presentata al Forum "Il Processo alle società" tenutosi a Milano il 10 ottobre 2003 e organizzato dalla Casa Editrice La Tribuna.

@1. Le finalità di un sistema cautelare

Il decreto legislativo n. 231/01 dedica la sezione IV del capo III al sistema cautelare, che già era stato previsto dalla legge delega con lo spirito di anticipare ad una fase preliminare del procedimento l'applicazione delle «sanzioni di cui alla lettera l)», ossia quelle interdittive. A tal proposito la relazione al decreto legislativo spiega che «le misure cautelari si caratterizzano per la loro strumentalità e provvisorietà, in quanto destinate a servire la decisione definitiva».

In quest'ottica la legge varata ha introdotto un impianto strutturato su due tipi di misure cautelari: quelle interdittive di cui all'articolo 9 comma 2 del decreto e quelle di natura reale, vale a dire il sequestro preventivo e il sequesto conservativo. Com'è ovvio le prime incidono sul soggetto, limitandone l'attività o l'accesso a determinate risorse economiche, mentre le seconde incidono sul suo patrimonio, aggredendolo in vista di un'eventuale confisca del profitto o per evitare la dispersione delle garanzie patrimoniali necessarie al pagamento delle sanzioni pecuniarie, delle spese del procedimento o di altre somme dovute all'erario.

In entrambi i casi l'esigenza è quella di «paralizzare o ridurre l'attività dell'ente quando la prosecuzione dell'attività stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati», come viene chiarito nella Relazione. Questa, nel soffermarsi ad illustrare le finalità perseguite dal legislatore attraverso la previsione di un sistema cautelare nei confronti delle società, aggiunge che «la sanzione pecuniaria non deve infatti rappresentare l'unica arma da utilizzare contro la criminalità d'impresa, atteso che per quanto possa essere adeguata al patrimonio dell'ente, finirà comunque per essere annoverata tra i rischi patrimoniali inerenti alla gestione. È un bene, dunque, che essa sia affiancata da sanzioni interdittive, che possiedono in misura superiore la forza di distogliere le società dal compimento di operazioni illecite e da preoccupanti atteggiamenti di disorganizzazione operativa».

L'articolo 9 individua le sanzioni interdittive nella:

  1. interdizione all'esercizio dell'attività;

  2. sospensione e revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito;

  3. divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;

  4. esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi;

  5. divieto di pubblicizzare beni o servizi.

    Le norme che riguardano le garanzie reali sono invece contenute negli articoli 53 e 54.

    Il primo - in evidente parallelismo con la norma dell'articolo 321, comma 2 bis c.p.p., che richiama il 322 ter c.p. per i reati commessi contro la pubblica amministrazione - prevede il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca, ossia del prezzo o del profitto del reato, anche nella forma per equivalente. Il secondo introduce una norma sostanzialmente corrispondente a quella del primo comma dell'articolo 316 c.p.p. preservando le garanzie patrimoniali in vista del pagamento delle sanzioni pecuniarie o delle spese del procedimento.

    @2. I presupposti applicativi

    L'articolo 13 del decreto 231/01 stabilisce che le sanzioni interdittive si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste. Non si applicano, quindi, a qualunque reato presupposto richiamato dalla legge, ma solo a quelli per i quali il legislatore ha previsto espressamente questa più grave misura.

    L'attuale disciplina normativa consente di fare un'esem plificazione. Nelle prime stesure della legge, i reati da cui l'illecito dipende erano indicati negli articoli 24, 25 e 25 bis (cui poi si è aggiunto un 25 ter, quater e quinquies) del D.L.vo 231. Nei tre articoli citati è stabilito che in caso di condanna si applicano anche le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9. Da tale previsione in positivo si desume che quando il legislatore nulla dice circa l'applicazione delle sanzioni interdittive, s'intende che queste non possono essere comminate. Ed è proprio quel che è accaduto con l'emanazione del decreto legislativo n. 61 del 2002 che ha riformato la disciplina dei reati societari, introducendo l'articolo 25 ter al D.L.vo 231/01. Questo articolo contiene una lunga serie di reati societari che possono determinare la responsabilità amministrativa della società, ad esclusione di quelli che per definizione vedono l'ente come persona offesa (infedeltà patrimoniale - art. 2634 - e infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità - art. 2635 - sono infatti ipotesi in cui l'autore non può aver commesso il fatto nell'interesse della società, ma in danno della stessa). L'articolo 3 del decreto 61/2002 prevede per tutti i reati presupposti elencati nell'articolo 25 ter esclusivamente la sanzione pecuniaria e d'altra parte la stessa legge delega non attribuiva al legislatore delegato la facoltà di introdurre sanzioni interdittive.

    Sempre nell'ottica di individuare se e quale misura interdittiva possa essere disposta nei vari casi, va detto che la sua applicazione in fase cautelare è prevista solo se la corrispondente sanzione è prevista quale pena edittale rispetto all'illecito per il quale si procede. Scorrendo, ad esempio, l'art. 24, vediamo che potranno essere applicate soltanto le misure interdittive richiamate nel comma 3 - vale a dire quelle di cui alle lettere c), d) ed e) - mentre per i reati di cui all'art. 25 potranno essere irrogate tutte le misure interdittive, ma con esclusivo riferimento al delitto di corruzione propria, di corruzione in atti giudiziari o di istigazione alla corruzione propria, restando escluso il reato di corruzione impropria. Page 4

    Fatta questa prima delimitazione, bisogna farne un'altra. L'articolo 13 del decreto 231 prevede altre due condizioni: l'ente deve aver tratto dal reato un profitto di rilevante en tità, ovvero deve essere recidivo. Tali condizioni, sulle quali si tornerà più avanti, sono alternative, essendo sufficiente che se ne verifichi una.

    Vi è poi una causa di esclusione della sanzione, prevista dall'ultimo comma di questo articolo in base al quale essa non si applica «nei casi previsti dall'articolo 12 comma 1» ossia quando il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità.

    Sempre l'articolo 13 condiziona l'applicazione della sanzione interdittiva all'ulteriore presupposto dell'essere stato il reato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative. Si tratta di presupposti che rinviano ai c.d. criteri di imputazione oggettiva stabiliti dall'articolo 5 del decreto legislativo e conseguentemente a quelli di imputazione soggettiva delineati dai successivi articoli 6 e 7 e con i quali ci si confronterà più avanti.

    @3. La fase di accertamento dell'illecito

    Il quadro, sommariamente esposto, dei presupposti applicativi di una misura interdittiva in fase cautelare serve a delineare uno schema operativo o, se si vuole, una sorta di protocollo d'indagine per il pubblico ministero che abbia il compito di accertare la eventuale responsabilità amministrativa dell'ente dipendente da reato.

    Come si è visto, i problemi da affrontare sono molti e appaiono ancor più difficili per l'assenza di precedenti giurisprudenziali.

    Il dato da cui l'inquirente prende le mosse è, in pratica, sempre dato dagli indizi del reato presupposto, ossia da quegli elementi che delineano la responsabilità della persona fisica inserita nell'ente di appartenenza. Acquisito il materiale investigativo a carico di questa, esso potrà essere utilizzato nell'ambito del procedimento iscritto a carico della società - e quindi anche nella sua fase cautelare -, sia nell'ipotesi in cui la trattazione sia unitaria, sia quando si proceda separatamente.

    Ma naturalmente i gravi indizi del reato da cui l'illecito dipende non sono che un passaggio, necessario, ma di certo non sufficiente per parlare di responsabilità amministrativa dell'ente, essendo per questa indispensabile dimostrare qualcos'altro.

    In primo luogo si dovrà provare che il soggetto abbia agito nell'interesse o a vantaggio dell'ente. La locuzione indica due circostanze, una soggettiva e l'altra oggettiva. Agire nell'interesse dell'ente significa avere mirato ad ottenere un risultato apprezzabile per esso, risultato che può anche non essere stato raggiunto. Agire a suo vantaggio significa aver tratto dal reato un risultato utile per la società. Nel primo caso si fa un processo alle intenzioni, ponendosi ex ante nella prospettiva mentale dell'autore del fatto criminoso; nel secondo si guarda al risultato della condotta con una valutazione ex post. In un giudizio finalizzato all'applicazione di una misura interdittiva - che, come sappiamo, postula l'ottenimento di un rilevante profitto per l'ente - avere accertato che la persona fisica abbia agito nell'interesse della società non basta, ma occorrerà che dalla sua condotta sia derivato, per quest'ultima, anche un vantaggio che appunto si traduca, in termini economici, in un profitto.

    L'organo dell'accusa, per fornire al giudice la dimostrazione che il soggetto abbia agito non nell'esclusivo interesse proprio o di terzi, ma in quello della società, potrà attingere agli atti d'indagine relativi al reato presupposto, giacché proprio questi disveleranno il «movente», attraverso quegli elementi utili a ricostruire l'elemento intenzionale dell'agente.

    Nel caso in cui sia dimostrabile la riferibilità della condotta ad un interesse o ad un vantaggio della società, si dovranno poi affrontare i profili di attribuzione soggettiva.

    Non è questa la sede...

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