Abnormità e progressione dinamica del processo: l’ipotesi del fatto diverso all’esito del dibattimento

AutoreFrancesco Nevoli
Pagine225-232

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@1. Premessa

– Sottoposta allo scrutinio della suprema Corte è l’ordinanza con cui il giudice, all’esito del dibattimento, ritenendo che il fatto sia diverso nella sua materialità da quello contestato, abbia dichiarato la nullità del decreto di citazione a giudizio e trasmesso gli atti al P.M. per le determinazioni del caso. Tale provvedimento, carente dell’indicazione del fatto diverso invece ravvisabile, è tacciato dalla ricorrente parte pubblica di abnormità perché produttivo di una «irreversibile stasi del procedimento». La Corte, con un percorso argomentativo scandito da quelle formule tralatiziamente ripetute nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità per definire la nozione di provvedimento abnorme, accoglie le doglianze contenute nel ricorso richiamando un risalente precedente della stessa sezione che un principio analogo1.

L’ordinanza impugnata, quindi, per tale carenza contenutistica atta a determinare una stasi non altrimenti eliminabile, è inquadrata nella «poliedrica e sfuggente categoria dell’abnormità»2, «senza che possa rilevare l’illegittima dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio». A tal proposito, osservano i giudici della Corte, all’erronea declaratoria di una nullità non prevista dalla legge consegue – in forza del disposto dell’art. 185, comma 3, c.p.p. – un’inammissibile effetto regressivo che varrebbe a far ritenere abnorme il provvedimento de quo sotto un ulteriore profilo.

Varie problematiche, quindi, si intrecciano nella sentenza in commento sotto il comune denominatore della categoria dell’abnormità: tali questioni saranno partitamente analizzate nel prosieguo.

@2. Il concetto di abnormià sotto il codice abrogato...

– All’indomani dell’entrata in vigore del codice di procedura del 1930, in cui era stato soppresso il ricorso nell’interesse della legge previsto nei codici previgenti3, si impose in giurisprudenza la necessità di aprire «una breccia nel sistema di tassatività delle impugnazioni»4 – il quale trovava il suo referente normativo nell’art. 190 c.p.p.5 (corrispondente all’attuale art. 568 c.p.p.) – onde «apprestare un rimedio contro gli arbitrii giudiziari»6.

La Corte di cassazione fu chiamata a pronunciarsi su provvedimenti manifestamente illegali ed incompatibili con l’ordinamento processuale, ma non ricorribili ex lege, né attinti da alcuno dei vizi previsti esplicitamente quale causa di gravame7. Il principio di tassatività delle impugnazioni ostava alla loro impugnabilità, ma prevalsero esigenze di equità e giustizia sostanziale8: «quando trattasi di un provvedimento non preveduto come possibile dalla legge» – sentenziò il giudice di legittimità – «l’impugnazione contro di esso è ammissibile, anche all’infuori dei limiti stabiliti dall’art. 190 c.p.p., di fronte all’impossibilità legislativa di dichiararlo preventivamente impugnabile»9.

In tal maniera, «rompendo il chiuso cerchio dell’impugnabilità oggettiva consacrato nell’art. 190», venne fissato un concetto generale non scritto nella legge ma deducibile dalla logica del sistema10, condiviso dalla dottrina maggioritaria pur nella varietà delle singole impostazioni11.

In ragione di questo principio, le sentenze, che per la singolarità del loro contenuto vanno considerate extra-vagantes rispetto all’ordinamento giuridico, non possono pretendere cittadinanza e meritano di essere espunte da esso attraverso i normali controlli giurisdizionali, non valendo per esse il principio di tassatività12.

A partire dal 1949, la categoria dell’abnormità fu estesa dalla Cassazione alle ordinanze: fu dichiarata l’ammissibilità dell’immediata impugnazione di un’ordinanza che aveva sospeso il dibattimento e rinviato gli atti al P.M. o al giudice istruttore fuori dei casi consentiti dalla legge13. L’impugnazione delle ordinanze emesse nel giudizio era ammessa, ex art. 200 c.p.p. 1930 (omologo del vigente art. 586 c.p.p.), solo congiuntamente alla sentenza conclusiva del giudizio; tuttavia, un provvedimento che viene «indebitamente a troncare il dibattimento», così negando oPage 226 comunque pregiudicando la successiva emanazione della sentenza, assume una «natura di irreparabilità» che non è propria delle ordinanze dibattimentali e che giustifica l’immediata impugnazione.

Mutò la ratio stessa dell’abnormità che, da strumento per assicurare il gravame avverso pronunce inoppugnabili, divenne (anche) autonoma causa petendi in deroga al principio di tassatività delle nullità, sancito dall’art. 184 c.p.p. 193014 (di tenore analogo all’art. 177 c.p.p. 1988).

In realtà, l’avvento della Costituzione repubblicana aveva modificato il quadro normativo nel quale era stata concepita la categoria in esame; l’art. 111 Cost. aveva reso esperibile il ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale.

Il disposto costituzionale – la cui immediata precettività fu riconosciuta in dottrina15 – trovò traduzione nella legislazione penale con la novella del 1955 che introdusse il principio all’interno dell’art. 190 c.p.p.

Dopo la riforma del 1955, non mancò chi vide nel testo novellato dell’art. 190 c.p.p. 1930 la consacrazione dell’impugnabilità oggettiva dei provvedimenti abnormi ed un ridimensionamento della categoria dell’abnormità, ormai irrilevante per sentenze e provvedimenti sulla libertà personale e con funzione marginale di legittimare l’impugnabilità di ordinanze e decreti non riguardanti lo status libertatis16.

Piuttosto, si affermò la consapevolezza che il temperamento apportato al principio di tassatività delle impugnazioni non rendeva anacronistica la nozione di abnormità che con riferimento alle ordinanze non riguardanti la libertà personale, continuava a svolgere la funzione di legittimare la deroga alla regola della tassatività dei mezzi di gravame, e con riferimento alle sentenze ed ai provvedimenti sulla libertà personale era sì svuotata dell’originario significato, ma assumeva quello «di giustificare la deroga all’enunciazione tassativa dei motivi di ricorso, assurgendo essa stessa a motivo di impugnazione non contemplato dalla legge, ma consacrato dall’elaborazione giurisprudenziale»17.

L’estensione della categoria alle ordinanze con natura di irreparabilità segnò l’avvio di una nuova prospettiva dì elaborazione della figura del provvedimento abnorme. L’irreparabilità fu intesa come l’attitudine che ha il provvedimento ad incidere significativamente sull’esercizio dell’azione penale e sullo sviluppo successivo del processo18. L’abnormità, dunque, consiste in una distorsione dello svolgimento dell’iter procedimentale in quanto il provvedimento viziato tronca un dibattimento che doveva essere portato a termine e determina un regresso alla fase istruttoria.

La nozione di abnormità, pertanto, si arricchì «di un contenuto il quale astrae dalla corrispondenza tra l’atto messo in essere e il modello legale, incentrandosi invece sulla incidenza che un atto può avere sullo sviluppo successivo del processo»19.

È evidente che in tal maniera l’abnormità viene a sostanziarsi nel provvedimento del giudice che determina uno sviluppo del processo fuori dagli schemi regolanti la sua progressione, id est nel la violazione del principio di non regressione ovvero di progressione dinamica che governa il processo nel suo complesso20.

L’effetto indebitamente regressivo dell’atto abnorme, infatti, si pone in conflitto con l’irretrattabilità dell’azione penale, intesa come tassatività delle cause di interruzione (art. 75 c.p.p. 1930, omologo dell’attuale art. 50 c.p.p.) e con il principio costituzionale di obbligatorietà della stessa (art. 112 Cost.). Un’interruzione non consentita dell’azione penale, invero, è idonea a frustrare le prerogative difensive dell’imputato, impossibilitato a svolgere compiutamente la propria strategia processuale, con irrimediabile lesione del diritto di difesa (art. 24, comma 2, Cost.); è, altresì, foriera di un patologico allungamento dei tempi processuali, in dispregio alle esigenze di ragionevole durata del processo (riconosciute dall’art. 6 CEDU ed attualmente anche dall’art. 111, comma 2, Cost. inserito dalla L. cost. 23 novembre 1999, n. 2).

Così definita la categoria dell’abnormità nel vigore del codice di rito del 1930, le formule elaborate scontavano un eccessivo grado di genericità che impediva loro di assurgere a guida sicura per l’interprete21.

@3. ... e sotto il codice vigente

– I compilatori del nuovo codice di procedura penale, nonostante le ripetute sollecitazioni in ambito parlamentare22, abdicarono consapevolmente al compito di definire l’abnormità e di individuarne l’ambito applicativo. Alla base della scelta23, secondo quanto precisato nella Relazione al progetto preliminare, vi erano «la rilevante difficoltà di una possibile tipizzazione e la necessità di lasciare sempre alla giurisprudenza di rilevarne l’esistenza e di fissarne le caratteristiche ai fini dell’impugnabilità»24.

Non ostandovi sbarramenti normativi diversi da quelli riconosciuti nel codice del 1930, fu conservata l’impostazione originaria, pur se, con il proliferare delle pronunce originate dal mutamento dei rapporti tra giudice e P.M.25, la nozione andò arricchendosi di nuove sfumature miranti a conferirle una più certa sistemazione dogmatica.

I tratti caratterizzanti della categoria, enucleati dai giudici di legittimità, sono così compendiati nella sentenza «Di Battista» delle Sezioni unite della Corte di cassazione: «È affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché l’atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale...

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