La responsabilità aggravata di cui all'art. 96 C.p.c.: un nuovo fronte per assicurare l'uso corretto del processo?

AutoreDomenico Potetti
CaricaMagistrato, Tribunale di Camerino
Pagine905-911

Page 905

@1. Introduzione

- Nonostante l'italica pretesa di essere la culla del diritto, troppo spesso chi pratica le aule di giustizia si rende conto che il processo civile (come, del resto, quello penale) non è affatto impermeabile a tattiche dilatorie e ad abusi di vario genere.

Nella materia del risarcimento del danno alla persona da infortunistica stradale questo fenomeno si manifesta spesso a danno del danneggiato.

Ad avviso di chi scrive, una delle cause di questo grave fenomeno sta nell'insufficienza della tutela (assai scarsa) fornita dall'art. 96 c.p.c. (per come lo abbiamo conosciuto fino ad ora).

Vediamo dunque se sia possibile, soprattutto allo stato attuale del dibattito sul danno non patrimoniale, dotare questa norma di una efficienza in grado di resistere all'abuso del processo.

È noto che, secondo un'opinione molte volte ribadita dalla Suprema Corte di Cassazione, l'art. 96 c.p.c. contiene la disciplina integrale e completa della responsabilità processuale aggravata, la quale si pone con carattere di specialità rispetto alla generale responsabilità aquiliana, di cui all'art. 2043 c.c.

Si può ben dire, quindi, che la responsabilità processuale aggravata è compresa concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti (v. Cass., n. 13455 del 2004).

La collocazione dell'art. 96 c.p.c. nell'ambito della responsabilità aquiliana comporta che il danno al quale la norma fa riferimento debba essere identificato con la perdita ed il mancato guadagno di cui all'art. 1223 c.c. (per il tramite dell'art. 2056 c.c.), e che l'onere della prova debba essere ripartito secondo la regola generale stabilita dall'art. 2697 c.c.

Ne consegue che l'art. 96 c.p.c., nel disciplinare come figura di illecito extracontrattuale la responsabilità processuale aggravata per mala fede o colpa grave della parte soccombente, non deroga al principio secondo il quale colui che intende ottenere il risarcimento dei danni deve dare la prova nel processo sia dell'an che del quantum; e quindi il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad affermarne concretamente l'esistenza.

Questi presupposti avevano portato a un depotenziamento dell'art. 96 c.p.c., proprio a causa della difficoltà di fornire una dettagliata deduzione e prova del danno subito.

@2. La nuova stagione dell'art. 2059 c.c. Il danno esistenziale...

- Non è certo questa la sede per descrivere compiutamente la vera e propria rivoluzione che il danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) ha conosciuto negli ultimi anni, soprattutto per l'irrompere fra i giuristi del c.d. "danno esistenziale".

Limitandoci strettamente a quello che ci può essere utile in questa sede, ricordiamo che le Sezioni unite civili (n. 6572 del 2006, in Giust. civ., 2006, p. 1443) sono intervenute sul tema, definendo il danno esistenziale come ogni pregiudizio che incide sul "fare areddituale" della persona, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l'espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Quindi, osservano le Sezioni unite, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva e interiore (come il danno morale soggettivo, sulla cui diversità dal danno esistenziale v. anche Cass. n. 729 del 2005), ma è oggettivamente accertabile attraverso la prova nel processo di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso.

Il danno esistenziale è stato riconosciuto anche nella giurisprudenza amministrativa (v. Cons. Stato, sez. VI, n. 1096 del 2005) ed in quella contabile (v. Corte dei Conti, sez. riunite, n. 10 del 2003).

Il fatto è che le Sezioni unite della Cassazione (n. 6572 del 2006, cit.) avrebbero potuto (ma non loPage 906 hanno fatto) dare un maggior contributo di chiarezza sul seguente quesito: se il danno esistenziale abbia, quale suo elemento costitutivo indefettibile (e non solo semplicemente consueto), la lesione di un diritto della persona tutelato dalla Costituzione.

In altre parole, occorre avere ben chiaro se l'esistenza del danno esistenziale sia strettamente dipendente dall'esistenza di un parametro costituzionale (diritto costituzionale della persona) di riferimento.

Nella pratica (oltre che nella teoria) questa questione è di grande importanza, perché la soluzione positiva della questione è in grado di dare a questo tipo di danno contorni meno evanescenti, e di limitarne il riconoscimento a casi dotati di un sufficiente spessore.

Le Sezioni unite dichiaratamente evitano di affrontare la questione, e quindi di completare la loro opera definitoria, perché quell'ulteriore sforzo non era utile alla soluzione della fattispecie concreta a loro sottoposta.

Più precisamente, le Sezioni unite evitano (perché superfluo nel caso da loro affrontato) di dire all'interprete se il danno esistenziale presuppone la lesione di un diritto costituzionale della persona, dato che nel caso concreto dalle stesse affrontato il danno esistenziale risultava già riconosciuto da una disposizione (l'art. 2087 c.c.) di rango ordinario.

Tuttavia, la suddetta ritrosia delle Sezioni unite su tale questione è servita alla dottrina per ritenere che anche secondo le Sezioni unite la violazione del diritto costituzionale della persona non è un elemento costitutivo indefettibile del danno esistenziale, essendovi semmai una predilezione, una maggiore stima dei giudici per la fonte costituzionale (v. A. MASCIA, La cristallizzazione del danno esistenziale nel diritto vivente, in Giust. civ., 2007, I, pp. 1476 e s.).

Opportunamente però, dopo l'intervento delle Sezioni unite suddette, il concetto di danno esistenziale è stato meglio definito dalla Cassazione (Sez. III civile, n. 23918 del 2006, in Foro it., 2007, I, c. 71; conf. Sez. III civile, n. 9510 del 2007).

Nello stesso senso v. Cass., Sez. II civile, n. 9861 del 2007, la quale (con rigore ancora maggiore) esige l'esistenza di una lesione di valori della persona umana nella misura e nei casi in cui essi sono considerati inviolabili dalla Costituzione.

In sintesi la Cassazione, nelle pronunce da ultimo appena citate, ha in particolare osservato che, mentre per il risarcimento del danno patrimoniale, mediante il solo riferimento al danno ingiusto, l'art. 2043 c.c. (norma generale e primaria) detta il carattere dell'atipicità dell'illecito (v. sez. un. n. 500 del 1999), per il danno non patrimoniale vale invece la regola della tipicità, perché l'art. 2059 c.c. ne limita il risarcimento ai soli casi previsti dalla legge.

La conseguenza di ciò (osserva la Corte) è che ai fini dell'art. 2059 c.c. non può farsi riferimento ad una generica categoria di "danno esistenziale", dagli incerti confini, poiché attraverso questa via si finirebbe per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione dell'apparentemente tipica categoria del "danno esistenziale".

Pertanto il risarcimento del danno non patrimoniale (fuori dall'ipotesi di cui all'art. 185 c.p. e delle altre minori ipotesi legislativamente previste) attiene solo alle ipotesi specifiche di valori costituzionalmente garantiti (la salute, la famiglia, la...

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