Vecchia e nuova disciplina dell'esame per magistrato ordinario

AutoreCarlo M. Grillo
Pagine969-979

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@1. Premessa.

In un ritrovato «Appunto per il Duce», datato 30 dicembre 1940/XIX, l'allora Guardasigilli Dino Grandi dava atto di aver trasmesso al Ministro delle finanze, ovviamente con l'approvazione del Duce, il provvedimento per la concessione dell'«indennità di funzione» ai magistrati, da inserire nell'Ordinamento giudiziario in via di approvazione. Per vincere le prevedibili resistenze del Ministro delle finanze, Grandi sollecitava un ulteriore intervento di Mussolini, ritenendo il provvedimento improcrastinabile «soprattutto nel momento in cui emanando il nuovo Ordinamento giudiziario noi veniamo praticamente a distruggere le famose guarentigie alla Magistratura sottoponendo quest'ultima, pur sotto un residuo orpello di indipendenza, alla effettiva dipendenza del Governo Fascista».

Chiara dunque l'intentio del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, che ridisciplinava la materia dopo gli Ordinamenti giudiziari del 1865 (R.D. 6 dicembre 1865, n. 2626) e del 1923 (R.D. 30 dicembre 1923, n. 2786). Il regime, soprattutto in quel particolare periodo di fine stagione, non poteva permettersi una magistratura non disposta ad applicare le leggi con «spirito fascista», come si legge nel prosieguo del citato documento, ovvero con «senso romano dello Stato», come lo stesso Grandi aveva auspicato qualche mese prima (il 10 maggio 1940) avanti al Senato.

In precedenza invece, dallo Statuto albertino in poi, il cammino della magistratura italiana (quella giudicante, beninteso, non quella requirente, normativamente rimasta alle dipendenze del Ministro di grazia e giustizia fino al 1946) aveva sempre proceduto, sebbene per piccoli passi, in direzione di una maggiore autonomia ed indipendenza, e quindi verso il riconoscimento di un particolare status professionale del giudice, quantunque questi fosse ancora sostanzialmente un funzionario nominato dall'esecutivo, giacché solo con la Riforma Zanardelli del 1890 veniva istituzionalizzato, per l'accesso in magistratura, il concorso pubblico.

Col «decreto Grandi» quindi si faceva marcia indietro: l'esecutivo, attraverso la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari, che a loro volta gestivano la carriera burocratizzata dei magistrati «in sottordine» (la progressione dipendeva sostanzialmente, infatti, dai giudizi espressi dal superiore gerarchico), finiva con l'avere il controllo completo dei singoli giudici.

Il panorama muta decisamente con la Costituzione repubblicana del 1947, che dedica l'intero Titolo IV della Parte II della Magistratura, disponendo che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101); «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104); «i magistrati sono inamovibili e si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (art. 107), e soprattutto cambiando i connotati del Consiglio superiore della magistratura, diventato operativo con la legge 24 marzo 1958, n. 195.

Al C.S.M., infatti, elevato al rango di «organo di autogoverno della magistratura», eletto per due terzi da magistrati e per un terzo dal Parlamento in seduta comune e presieduto dal Presidente della Repubblica, veniva riconosciuta competenza esclusiva in materia di assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati, realizzandosi così finalmente l'effettiva «separazione dei poteri», traguardo dello Stato moderno (anche se nella Costituzione repubblicana, come del resto nello stesso Statuto albertino, si parla sempre di ordine e mai di potere giudiziario).

Il preesistente Consiglio superiore della magistratura, istituito presso il Ministero di grazia e giustizia e composto da magistrati nominati su proposta del Ministro (art. 151 R.D. n. 2786/1923; art. 213 R.D. n. 12/1941), era invece sostanzialmente un organo consultivo, tutto sommato di scarsa incisività, ritenendosi allora «il principio del così detto autogoverno della Magistratura incompatibile col concetto dello Stato fascista» (v. citata Relazione al Re del Guardasigilli Grandi del 1940).

L'ordinamento giudiziario disegnato dal «decreto Grandi» non risultava però compatibile con i nuovi principi costituzionali, per cui la VII disposizione transitoria della nostra Carta fondamentale prevedeva espressamente l'emanazione di una nuova specifica legge «in conformità con la Costituzione», pur lasciando in vigore, per evitare pericolosi vuoti normativi, il regio decreto del 1941 fino alla sua sostituzione. Da subito, comunque, il detto ordinamento veniva investito da un susseguirsi di interventi legislativi e giurisprudenziali che, nel corso di cinquant'anni, lo hanno radicalmente mutato, eliminando le disposizioni palesemente confliggenti con i principi costituzionali e rendendo, conseguentemente, meno pressante l'obbligo di dare esecuzione alla menzionata VII disposizione transitoria, che ne imponeva la sostituzione. L'attuale esigenza di intervenire sul tessuto normativo vigente, pertanto, prescindendo da eventualiPage 970 differenti scelte di politica giuridica, è dettata non più dalla necessità di costituzionalizzare l'ordinamento in questione, bensì da quella - pur essa impellente - di mettere ordine in una congerie di norme succedutesi disordinatamente, senza organicità e coordinamento, spesso sovrapposte e talvolta contrastanti, sì da renderne estremamente difficile una lettura unitaria.

Alla luce di tali considerazioni, non può che ritenersi meritoria, aldilà delle più o meno recondite finalità degli ispiratori di essa, l'iniziativa del precedente Governo di varare la legge delega 25 luglio 2005, n. 150, avente ad oggetto, tra l'altro, la riforma dell'ordinamento giudiziario.

Finalmente - dopo oltre mezzo secolo - si è ottemperato al disposto della negletta VII disposizione transitoria della Costituzione, come peraltro lealmente riconosciuto dallo stesso Ministro Mastella nel discorso al Senato del 19 settembre 2006 («... debbo dare atto al sen. Castelli del coraggio di avervi posto mano, sia pure a colpi di spada...»).

@2. L'accesso in magistratura nell'evoluzione dell'Ordinamento giudiziario.

In ordine alla specifica problematica dell'accesso in magistratura, l'ultimo decennio ha fatto registrare una vera e propria rivoluzione dell'impianto tradizionale del concorso per uditore giudiziario, rimasto per tanti anni sostanzialmente immutato.

Con legge 15 maggio 1997, n. 127 (art. 17, commi 113 e 114), infatti, veniva tra l'altro delegata al Governo la modifica della disciplina del detto concorso, da realizzare attraverso la semplificazione delle modalità di svolgimento nonché la graduale introduzione, come condizione generale di ammissione allo stesso, dell'obbligo di conseguire un diploma presso scuole di specializzazione istituite nelle università, sedi delle facoltà di giurisprudenza. Si voleva in tal modo, introducendo una selezione partecipativa che ne limitava l'accesso, rendere il concorso più agile e gestibile e dunque accelerarne l'espletamento. In tempi di costante crisi occupazionale e di proliferazione di atenei e di addottorati, il concorso in questione, infatti, in quanto accessibile ai semplici laureati in giurisprudenza (senza la previsione di alcun «filtro» o apprendistato obbligatorio), era divenuto il più facile approdo di decine di migliaia di candidati, con conseguente allungamento a dismisura dei tempi di reclutamento (circa tre anni) e di effettivo inserimento in organico di magistrati. La legge in esame (c.d. «Bassanini bis»), oltre a ridurre l'abnorme affollamento dei concorsi, si proponeva di assicurare un più alto livello di preparazione e di cultura dei partecipanti e, non ultimo, di favorire il formarsi di una cultura comune tra magistrati e avvocati.

Il decreto legislativo 17 novembre 1997 n. 398, in attuazione della menzionata legge delega, prevedeva solo due canali di accesso al concorso: il conseguimento del diploma di specializzazione di cui all'art. 17, comma 113, della legge 15 maggio 1997, n. 127; in alternativa, il superamento di una «prova preliminare» diretta ad accertare il possesso dei requisiti culturali, da realizzarsi con l'ausilio di sistemi informatizzati e attraverso la quale potevano essere ammessi alle prove scritte, inizialmente, solo un numero di candidati pari a cinque volte i posti messi a concorso e, successivamente, a partire dal settimo anno dall'entrata in vigore del decreto, un numero sempre inferiore fino a raggiungere il doppio dei posti messi a concorso.

Secondo il decreto de quo l'accesso all'esame, al di fuori dei due menzionati canali, era possibile esclusivamente per: a) magistrati militari, amministrativi e contabili; b) procuratori e avvocati dello Stato; c) idonei in uno degli ultimi tre concorsi per uditore; d) titolari di diploma di specializzazione per le professioni legali, anche se iscritti al corso di laurea in giurisprudenza prima dell'anno accademico 1998/1999.

In questo nuovo contesto normativo, essendosi intanto rilevata una notevole carenza di organico, irrompeva la legge 13 febbraio 2001, n. 48 (propugnata dal Ministro Diliberto), che aumentava di mille unità il ruolo dei magistrati ordinari. L'organico complessivo - elevato per ultimo di seicento unità con legge 9 agosto 1993, n. 295 - veniva così portato complessivamente a 10.109 magistrati, quale è ancora attualmente.

Per la copertura dei nuovi mille posti e di tutti gli altri resisi vacanti, la legge 48/2001 prevedeva un «reclutamento straordinario» di uditori attraverso tre concorsi «semplificati», banditi contestualmente, con riduzione del numero delle prove scritte da tre a due (da sorteggiare tra le tradizionali: civile, penale, amministrativo). Per questi concorsi veniva abbassata altresì la soglia di sufficienza della prova orale (la cui media passava da 7,75 a 7,50 decimi, per materia o gruppo di materie), riconoscendosi inoltre la facoltà al Ministro della giustizia, su conforme parere del C.S.M. - nel caso in cui il numero degli idonei fosse molto inferiore a quello dei magistrati da reclutare - di...

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