L’interpretazione di Ulpiano alla disposizione del senatoconsulto espressa in D. 5.3.20.6c. Parte Seconda

AutoreYuri González Roldán
Pagine229-305

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@1. La congruens interpretatio d’Ulpiano alla seconda parte di questa clausola del senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum

Il giurista di Tiro, nello stesso libro quindicesimo ad edictum, dopo avere spiegato e commentato le problematiche relative alla responsabilità dei possessori di mala fede dei beni ereditari, procede all’esame delle questioni suscitate dalla parte conclusiva del § 6c del senatoconsulto in una serie di testi raccolti nei §§ 11-17 di D. 5.3.25139. Come riportato in apertura al capitolo precedente, in questa parte si dice:

eos autem, qui iustas causas habuissent, quare bona ad se pertinere existimassent, usque eo dumtaxat, quo locupletiores ex ea re facti essent.

Data l’importanza di tale disposizione in riferimento al prezzo delle cose ereditarie vendute, abbiamo già avuto occasione di occuparcene nella corrispondente parte della nostra ricerca (cap. II), tralasciando però il gruppo di testi ora menzionati (ad eccezione di D. 5.3.25.17, che presenta un problema di rapporto tra prezzo-cosa-arricchimento). Essi infatti riguardano sfere d’applicazione diverse dal prezzo, considerando ipotesi dove non esisterebbe arricchimento, con conseguenti riflessi sulla valutazione della responsabilità dei possessori di buona fede.

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Vediamo innanzitutto il contenuto di D. 5.3.25.11:

Consuluit senatus bonae fidei possessoribus, ne in totum damno adficiantur. sed in id dumtaxat teneantur, in quo locupletiores facti sunt. quemcumque igitur sumptum fecerint ex hereditate, si quid dilapidaverunt perdiderunt, dum re sua se abuti putant, non praestabunt. nec si donaverint, locupletiores facti videbuntur, quamvis ad remunerandum sibi aliquem naturaliter obligaverunt. plane si [VEDA IL TESTO NEL PDF FISSATO]acceperunt, dicendum est eatenus locupletiores factos, quatenus acceperunt: velut genus quoddam hoc esset permutationis140.

Ulpiano qui sintetizza il contenuto della seconda parte del § 6c del senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum con una terminologia diversa; mentre il SC parla di coloro qui iustas causas habuissent, quare bona ad se pertinere existimassent, il giurista direttamente afferma: consuluit senatus bonae fidei possessoribus. Allo stesso modo egli aveva fatto in D. 5.3.20.12 in relazione a quelli che si consideravano eredi, identificandoli, senza giri di parole, con i possessori di buona fede: haec adversus bonae fidei possessores, nam ita senatus locutus est: eos qui se heredes existimassent. Da un punto di vista formale, in D. 5.3.25.11 si rispetta il termine dumtaxat del testo delPage 231 provvedimento senatorio, mentre le parole quo locupletiores ex ea re facti essent divengono: in quo locupletiores facti sunt.

Quanto al contenuto, il giurista sottolinea come il senato abbia provveduto ai possessori di buona fede, affinchè non fossero obbligati a sopportare il danno per intero, ma soltanto nella misura del proprio arricchimento (consuluit-facti sunt). Quindi essi non erano chiamati a rispondere per qualunque spesa avessero sostenuto mediante beni ereditari e per le cose che avessero perduto o dissipato, in quanto credevano di usare di cose proprie (quemcumque igitur-non praestabunt). Né si consideravano arricchiti nel caso in cui avessero donato cose ereditarie possedute, anche se il donatario si fosse obbligato naturaliter a ricompensarli (nec si donaverint-obligaverunt).

La situazione era diversa, invece, se essi avessero ricevuto degli [VEDA IL TESTO NEL PDF FISSATO]141, dal momento che questi determinavano un arricchimento a vantaggio dei possessori dell’eredità, venendosi a configurare quasi una sorta di permuta142 (plane si-permutationis).

I possessori di buona fede, dunque, vedono commisurata la propria responsabilità all’arricchimento conseguito, e, pertanto, non sono tenuti alle spese di qualunque tipo fatte con beni tratti dall’eredità (volontarie o necessarie, usando la terminologia attuale). Se abbiano disposto delle cose ereditarie, perdendole o dissipandole, non dovranno comunque restituirle all’erede, perché credevano di utilizzare propri beni. Inoltre la consegna di cose ereditarie donandi causa ne esclude la locupletatio, sebbene con essa abbiano fatto nascere per il donatario un’obbligazione naturale a ricompensare. Diversamente, in presenza di doni in contraccambio, l’erede ha la facoltà di agire contro i possessori, che hanno donato la cosa ereditaria, e pretendere gli [VEDA IL TESTO NEL PDF FISSATO] 'surrogandosi’ questi beni alle res ereditarie medesime. Mentre, nel caso in cui il donata-Page 232rio non abbia adempiuto l’obbligo naturale a ricompensare, l’erede non potrà agire contro i possessori donanti.

Interessante risulta l’affermazione di Ulpiano che gli [VEDA IL TESTO NEL PDF FISSATO] si considerano come inclusi nell’arricchimento, in quanto si realizzerebbe così un quoddam genus permutationis. Tuttavia con l’aggiunta di velut indica che questa affinità non ne elimina le differenze. Difficilmente potrebbe configurarsi un vincolo obbligatorio in forza del quale il donatario sia tenuto agli [VEDA IL TESTO NEL PDF FISSATO]: egli adempie un obbligo naturale, senza che i donanti abbiano tutela giuridica per pretenderli. Il giurista osserva che in questa ipotesi, come accade nel contratto innominato, il donante riceve un vantaggio economico (gli [VEDA IL TESTO NEL PDF FISSATO]) che produce un arricchimento e, conseguentemente, rientra nell’ipotesi prevista nel senatoconsulto.

In D. 5.3.25.12-13 Ulpiano presenta altre questioni riguardanti la locupletatio:

Si quis re sua lautius usus sit contemplatione delatae sibi hereditatis, Marcellus libro quinto digestorum putat nihil eum ex hereditate deducturum, si eam non attigit. 13. Simili modo et si mutuam pecuniam accepit, quasi dives se deceperit143.

Secondo Marcello, nel libro quinto dei Digesti, se qualcuno, in previsione di un’eredità a lui delata, abbia usato più largamente delle cose proprie, e non abbia invece toccato le cose dell’eredità, non si considera aver detratto nulla dalla stessa (si quis re sua-non attigit). Un’identica soluzione valeva, anche se avesse preso denaro a mutuo, reputandosi più ricco di quello che era (simili modo-se deceperit).

Il passo può interpretarsi nel senso che è stata fatta la delatio di un’eredità ad una persona che, avendo l’aspettativa di ricever-Page 233la, ne è entrata in possesso, sprecando propri beni in modo poco prudente e giungendo in seguito a scoprire, invece, che apparteneva ad un altro. In tal caso il possessore, secondo Marcello (e probabilmente Ulpiano), non poteva pretendere di dedurre dall’eredità da restituire beni equivalenti ai suoi che aveva consumato o dilapidato, perché, come è noto, i due patrimoni non si erano confusi. Tale soluzione, sebbene ovvia, in quanto possono soltanto considerarsi nella deduzione quei beni di cui avesse disposto il possessore, se formavano parte dell’eredità, poteva presentare nella sua applicazione pratica dei problemi, non essendo sempre così facile stabilire a chi appartenessero le sostanze utilizzate. Per questo motivo crediamo che l’opinione di Marcello vada limitata alle cose che possano chiaramente dimostrarsi come non comprese nel patrimonio ereditario.

Ulpiano, collegandosi al pensiero di Marcello, afferma che non può operarsi una deduzione, anche nel caso in cui uno, reputandosi più ricco di quello che era, avesse preso denaro in mutuo nella previsione di ricevere l’eredità. La ragione sembra chiara: il debito, che ha come origine il mutuo, non può farsi valere contro il titolare dell’eredità, perché non ha toccato le cose ereditarie.

La situazione si complica nel caso in cui queste fossero state date in pegno, come può osservarsi nel successivo § 14 di D. 5.3.25:

Si tamen pignori res hereditarias dedit, videndum, an vel sic attingatur hereditas: quod est difficile, cum ipse sit obligatus 144 .

Se il possessore aveva costituito in pegno cose ereditarie, si doveva vedere se, così facendo, avesse toccato anche l’eredità (si tamen-hereditas), e la risposta è orientata in senso negativo, essendosi obbligato lui stesso (quod est-obligatus).

Il presente passo è collegato al precedente con il termine tamen, inducendoci così a pensare che ne rappresenti una continuazione; possiamo perciò ritenere che il possessore delle cosePage 234 ereditarie, credendosi più ricco di quello che era in realtà, abbia concluso un mutuo con un terzo e dato in garanzia le res appartenenti all’eredità. In questa ipotesi la questione consiste nel sapere se tale garanzia riguardi l’hereditas e l’opinione di Ulpiano inclina per il no, perché l’obbligazione assunta è di carattere personale (con riferimento al mutuo); perciò ne conseguirebbe che qui il possessore dovesse adempiere al mutuo e liberare le cose ereditarie dal pegno. Data la brevità del testo, restano senza risposta molti interrogativi: ad esempio, qualora il pagamento del credito non sia stato fatto, l’erede, titolare delle res, potrebbe agire contro il creditore pignoratizio? Oppure non potrebbe considerarsi in questo caso che il debitore pignorante avesse disposto delle cose come se fossero sue?

Intorno alla responsabilità di quello che si crede erede Ulpiano, subito dopo, in D. 5.3.25.15 avanza un problema interessante:

Adeo autem qui locupletior factus non est non tenetur, ut si quis putans se ex asse heredem partem dimidiam hereditatis sine dolo malo consumpserit, Marcellus libro quarto digestorum tractat, num non teneatur, quasi id quod erogaverit ex eo fuerit, quod ad eum non pertinebat, sed ad coheredes: nam et si is qui heres non erat totum, quidquid apud se fuit, consumpsisset, sine dubio non tenetur, quasi locupletior non factus. sed in proposita quaestione tribus visionibus relatis, una prima: deinde alia posse dici totum quod superest restituere eum debere, quasi suam partem consumpserit: tertia utrique quod consumptum est decedere: ait utique non nihil restituendum, de illo dubitat,...

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