L’interpretazione di Ulpiano alla disposizione del senatoconsulto espressa in D. 5.3.20.6c. Parte prima

AutoreYuri González Roldán
Pagine165-229

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@1. Il contenuto della terza clausola del senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum (prima parte)

Il SC qui analizzato nel § 6c di D. 5.3.20 affronta il problema della responsabilità di quanti avevano preso possesso di beni ereditari con la consapevolezza che non gli spettavano:

Item eos qui bona invasissent, cum scirent ad se non pertinere, etiamsi ante litem contestatam fecerint, quo minus possiderent, perinde condemnandos, quasi possiderent: eos autem, qui iustas causas habuissent, quare bona ad se pertinere existimassent, usque eo dumtaxat, quo locupletiores ex ea re facti essent 1 .

Dovevano quindi essere condannati come se possedessero (perinde-possiderent) quelli che avessero occupato cose ereditarie, sapendo di non esserne i proprietari (eos qui non pertinere), anche se avessero poi cessato di possederle prima della litis contestatio (etiamsi ante-possiderent); quanti invece avessero avuto una giusta causa per ritenere che i beni gli appartenessero (eos autemexistimassent), erano chiamati a rispondere solo nei limiti in cui con gli stessi si fossero arricchiti (usque eo-facti essent).

La prima parte della disposizione è analizzata da Ulpiano sempre nel libro quindicesimo ad edictum, in D. 5.3.25.2-102; mentre la seconda, rilevando sia in relazione al prezzo (con passi che abbiamo visto nel capitolo precedente), che con riguardo allaPage 167 cosa ereditaria alienata viene spiegata in D. 5.3.25.11-173 (quest’ultimo paragrafo, in quanto attinente al prezzo e alla cosa venduta è stato esaminato nel capitolo precedente).

Quanto alla prima parte, si delinea una chiara configurazione della responsabilità di quelli che hanno invaso i beni, anche se, anteriormente alla litis contestatio, abbiano fatto di modo di non possedere: essi sono dunque tenuti, pur non avendo più la cosa. Questo principio vale non soltanto nel nostro SC, ma si estende anche in altri campi, ed infatti Paolo, libro vicesimo secundo ad edictum in D. 50.17.131 lo enuncia in termini generali:

Qui dolo desierit possidere, pro possidente damnatur, quia pro possessione dolus est.

Il citato passo, la cui sede originaria concerneva certamente una materia diversa dalla nostra, anche se si discute quale4, afferma che chi abbia cessato di possedere per dolo, è condannato come possessore, perché il dolo si sostituisce al suo possesso. L’equiparazione tra effettivo possessore e chi dolosamente si fosse privato del possesso ritorna anche in Ulpiano, libro septuagensimo primo ad edictum in D. 50.17.157.1, il quale, in relazione all’interdictum quod precario5, dice:

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Semper qui dolo fecit, quo minus haberet, pro eo habendus est, ac si haberet 6 .

Sempre chi con dolo abbia fatto in modo di non avere, deve essere considerato come se avesse ancora. Per quanto il testo faccia un generico riferimento alla situazione di habere, con essa si vuole indubbiamente intendere quella di possidere, in quanto, come è noto7, il precario habens (o il suo erede) viene indicato come possessore della cosa.

Come possiamo constatare, i passi ora esposti sono stati avulsi dal loro contesto primitivo e collocati in D. 50.17 (“De diversis regulis iuris antiqui”), riconoscendo così al principio in essi contenuto una portata più ampia e generale. Che esso fosse già stato elaborato dai giuristi classici risulta anche da Gaio, libro trigenPage 169simo ad edictum provinciale in D. 44.2.17, che lo riferisce in forma negativa:

Si rem meam a te petiero, tu autem ideo fueris absolutus, quod probaveris sine dolo malo te desisse possidere, deinde postea coeperis possidere et ego a te petam: non nocebit mihi exceptio rei iudicatae 8 .

Qui si sostiene che l’eccezione di cosa giudicata non è pregiudizievole per l’attore (non nocebit mihi exceptio rei iudicatae), nel caso in cui intenda ritentare l’azione contro il convenuto, il quale abbia riacquistato il possesso di una cosa dell’attore stesso, possesso che aveva perso senza dolo ed era perciò stato assolto nel precedente processo (si rem meam – ego a te petam). Interpretando a contrario la prima parte, ne consegue che la perdita del possesso in mala fede da parte del convenuto apre la strada ad una sentenza di condanna a suo carico.

Scendendo nello specifico, vediamo che la responsabilità di qui dolo desiit possidere in età classica opera in numerosi altri campi: così, v.g., nell’actio ad exhibendum9, negli interdicta quorum bonorum10 , de tabulis exhibendis11 ; de liberis exhibendis, itemPage 170 ducendis12, nelle vindicationes pignoris13 , ususfructus14 , servitutis15 ed in altri tipi di azioni16.

L’ottica della nostra ricerca viene tuttavia limitata a quei soli settori per i quali presenta un interesse il senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum.

Grazie alla sua clausola del § 6c si risolve il problema del vocatus che, presente in iure, rifiuti di difendersi in un processo per il recupero di un’eredità, cercando di giustificare il proprio comportamento con il fatto di non esserne più in possesso e contestando in tal modo la propria partecipazione nel giudizio. CosìPage 171 il senatoconsulto consentiva al titolare dell’eredità (fisco o erede) di colpire una condotta del convenuto valutabile sotto il profilo dell’illecito, consistente nel cercare di impedire all’attore la difesa giudiziale del proprio diritto. Questa situazione si presenta come eccezionale17, perché normalmente chi è convenuto in giudizio dovrebbe avere il possesso della cosa, come ricorda Ulpiano, nello stesso libro quindicesimo ad edictum in D. 5.3.918, secondo cui è tenuto in base alla petitio hereditatis chi possiede attualmente l’eredità o anche una cosa ereditaria pro herede vel pro possessore:

Regulariter definiendum est eum demum teneri petitione hereditatis, qui vel ius pro herede vel pro possessore possidet vel rem hereditariam 19 .

L’atteggiamento del praedo, che ha dolosamente abbandonato il possesso di fronte all’esercizio dell’azione, può concretarsi in diverse situazioni: si rifiuta di comparire, non accetta la litis contestatio o non conclude la satisdatio iudicatum solvi, oppure siPage 172 offre alla lis. Analizziamo qui di seguito ciascuna di esse e le conseguenze giuridiche che ne derivano.

@@a. Il praedo, che ha dolosamente abbandonato il possesso si rifiuta di essere chiamato o di comparire in giudizio

Il possessore di mala fede (al pari di quello di buona fede), non deve sottrarsi alla chiamata in giudizio ad opera di una petitio hereditatis e deve in ogni caso comparire, anche quando si sia privato con dolo del possesso, se non vuole incorrere nelle conseguenze previste per la latitanza da Ulpiano, libro quinquagensimo nono ad edictum in D. 42.4.7.1820, il quale, citando il pensiero di Celso, afferma:

Idem Celsus existimat, si is, a quo hereditatem petere velim, latitat, commodissime fieri posse, ut in possessionem mittar rerum, quas pro herede vel pro possessore possidet: sed si dolo fecit, quo minus possideret, bona eius possidenda et vendenda sunt 21 .

Come possiamo vedere, il testo si articola in due parti: nella prima il giurista adrianeo considera, nell’esercizio della petitio hereditatis, molto comodo per l’attore, se il convenuto era latitante, essere immesso nel possesso delle cose che quello aveva pro herede o pro possessore (si is, a quo hereditatem petere velim, latitat, commodissime fieri posse, ut in possessionem mittar rerum, quas pro herede vel pro possessore possidet); nella seconda UlpianoPage 173 continua dicendo che, se il convenuto con dolo aveva cessato di possedere, subiva l’immissione nel possesso dei suoi beni e la loro successiva vendita (sed si dolo fecit, quo minus possideret, bona eius possidenda et vendenda sunt). Si constata così una diversità di prospettiva, perché, mentre Celso dava la missio in possessionem contro il possessore latitante con riguardo ai beni perseguibili con la petitio hereditatis, nel caso del dolo desinens possidere che si sottraesse alla chiamata in giudizio, la missio colpiva tutti i suoi beni, perché, come afferma Marrone22, una translatio possessionis dei beni non più posseduti o mai posseduti per dolo sarebbe stata ovviamente impossibile.

Nel pensiero di Celso non ha rilevanza la distinzione tra possesso di buona e mala fede, perché le conseguenze giuridiche a carico del latitante sono le stesse23, potendo comunque l’attore chiedere l’immissione nelle cose ereditarie. Nella successiva enunciazione Ulpiano prospetta per il convenuto latitante, che avesse dolosamente abbandonato il possesso, una situazione più gravosa, in quanto era il suo patrimonio complessivo a formare oggetto della missio in favore dell’attore e della conseguente bonorum venditio.

Da questo testo possiamo osservare che il praedo qui dolo fecit quo minus possideret o compare in giudizio o sopporta le sanzioni giuridiche appena descritte. Dell’argomento si continua a parlare anche nel successivo § 19 di D. 42.4.7, allorché si dice:

Divus quoque Pius in persona eius, qui hereditatem possidens copiam sui non faciebat, rescripsit in possessionem rerum hereditariarum adversarium inducendum: in quo rescripto et fructum percipere iussit eum, qui per nimiam contumaciam possessoris hereditatis, ut lucro eius cedat, in possessionem inductus est rerum hereditariarum 24 .

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Il rescritto d’Antonino Pio pone in luce un evidente collegamento con l’opinione di Celso, in quanto chi, possedendo un’eredità non la difendeva (qui hereditatem possidens copiam sui non faciebat), consentiva all’avversario di essere immesso nel possesso delle cose ereditarie (in possessionem rerum hereditariarum adversarium inducendum). Inoltre l’imperatore ordinava che percepisse anche i frutti chi, per la persistente contumacia del possessore dell’eredità, avesse ottenuto il possesso delle cose ereditarie, affinché potesse trarre da esse un lucro (et fructum percipere iussit - rerum hereditariarum).

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