La tutela della riservatezza dei dati personali

AutoreRenato Borruso
CaricaPresidente Aggiunto onorario della Corte di Cassazione ed ex Direttore del CED della Corte medesima. Docente di informatica giuridica presso l'Università di Perugia e la LUISS di Roma
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Renato Borruso Presidente Aggiunto onorario della Corte di Cassazione ed ex Direttore del CED della Corte medesima. Docente di informatica giuridica presso l'Università di Perugia e la LUISS di Roma. Relazione tenuta a Catania il 9 febbraio 2007 nella sala convegni dell'Hotel Parco degli Aragonesi in occasione della presentazione al pubblico di uno speciale archivio costituito da un armadio contenente faldoni di documenti cartacei il cui prelievo e la cui consultazione può avvenire solo sotto il controllo di un sistema computerizzato in grado di riconoscere i soggetti autorizzati ad accedere al predetto archivio e di rintracciare a distanza, mediante un fascio di radioonde, il faldone asportato, memorizzando, altresì, la storia completa della consultazione dei documenti in archivio e il nome di chi ne ha preso visione.

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@1. I precedenti della tutela della riservatezza apprestata dal Codice: l'inibizione dell'abuso dell'immagine altrui (art. 10 c.c. e 96, 97, 98 l. dir. dautore del '41)

L'esigenza di tutelare la riservatezza (o privacy che dir si voglia) si cominciò a far sentire a cavallo tra l'800 e il '900 non in Italia, bensì nel mondo anglosassone specie negli ambienti più liberali per mettere il cittadino al riparo dalle invasioni che giornali, foto, cinema e poi - con l'andar delPage 8 tempo - radio e televisione erano in grado di effettuare - e sempre più effettuavano - nella sua vita privata, non raramente con effetti devastanti.

In Italia la difesa della riservatezza trovò un principio di attuazione nell'art. 10 del c.c. del 1942 in relazione all'abuso dell'immagine altrui. Tale articolo intitolato "abuso dell'immagine altrui" ancora oggi così recita: "qualora l'immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l'autorità giudiziaria, su richiesta dell'interessato, può disporre che cessi l'abuso, salvo il risarcimento dei danni".

Tale norma trovava un più articolato svolgimento negli articoli 96, 97 e 98 della legge sul diritto d'autore n. 633 del 1941, il primo dei quali dispone che il ritratto di una persona non può essere esposto o messo in commercio senza il suo consenso; il secondo che il consenso non occorre quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico; il terzo che il ritratto non può, tuttavia, essere esposto o messo in commercio quando ciò rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione o anche al decoro della persona ritrattata.

Tali norme riguardanti l'abuso dell'immagine ben avrebbero potuto essere applicate per analogia "legis", - espressamente consentita dal 2° comma dell'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale che costituiscono la prefazione del c.c. - anche in riferimento ai nomi identificativi delle persone, potendo il bene protetto dagli articoli sopra menzionati (e cioè la riservatezza personale) essere offeso in maniera egualmente grave dalla propalazione del nome di una persona rispetto all'esposizione della sua immagine, essendo entrambi idonei a identificarla.

In tal modo si sarebbe potuto vietare che, senza il consenso della persona nominata e al di fuori delle eccezioni sopramenzionate, si potesseroPage 9 divulgare notizie a suo riguardo: propalare, non semplicemente acquisire per tenere per sé, perché una siffatta acquisizione era ritenuta perfettamente libera, come libero, in base al testo del predetto art. 10 c.c., sembra ancora oggi il fotografare una persona (anche se non notoria) o farne il ritratto pittorico anche contro la sua volontà (se non se ne espone o si pubblicizza l'immagine), a meno che non si commetta il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all'art. 615-bis c.p. che consiste nel procurarsi indebitamente, mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, notizie o immagini attinenti alla vita privata di una persona svolgentesi nella sua abitazione o in altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi (violazione di domicilio art. 614 c.p.).

@2. Il fattore scatenante dell'improvviso acuirsi dell'esigenza di protezione: l'avvento dei mega-computers negli anni cinquanta-sessanta

Ma, intorno al 1960, cominciarono ad essere messi in uso mega elaboratori elettronici (o mega computers che dir si voglia) in grado di memorizzare, confrontare e integrare una quantità immensa di dati nominativi e di dare, quindi, un quadro globale e al tempo stesso dettagliato sul conto di ogni persona il cui nome fosse registrato negli archivi elettronici.

Più che un allarme, ciò destò una vera e propria sindrome isterica di ribellione in quanti avevano a cuore la difesa della riservatezza, fino allora tutelata solo riguardo alle immagini (peraltro nei limiti che ho già accennato) anche se - ma solo in giurisprudenza - cominciava a delinearsi un orientamento, ma ancora vago e incerto, favorevole ad ammettere che, tra i diritti della personalità, vi fosse la tutela, non solo dell'immagine del proprio corpo, ma anche della propria vita intima, personale, familiare, quando essa non fosse già di pubblico dominio o non vi fosse un interesse pubblico, sociale, storico a farla conoscere.

Lo spettro, l'ossessione del "grande fratello" di orwelliana memoria, del Leviatano prospettato da Hobbes - spettro che fino ad allora era rimasto piuttosto latente anche se pur sempre inquietante - trovò improvvisamente nella novità costituita dalle banche di dati nominativi ad elaborazione elettronica l'occasione e l'alimento per divampare nella coscienza collettiva con fiamme così alte da imporre immediatamente, specie nel mondo anglosassone e nell'Unione Europea, un intervento inibitorio del legislatore.

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L'Italia, sia pure quasi per ultima nel novero delle nazioni europee, fu più che spinta, quasi costretta ad adottare una legge al riguardo (la famosa legge 675 del 1996) come se si trattasse di far fronte a un'emergenza, a un pericolo pubblico incombente e gravissimo. E, come spesso accade quando si è spinti da pulsioni così forti e improvvise si andò - a mio parere - al di là di quanto sarebbe stato strettamente necessario per difendersi dal "mostro elettronico", quantunque solo alla sua comparsa fosse dovuto l'improvviso emergere e ingigantirsi dell'esigenza di protezione della riservatezza. Ciò spiega perché si volle una legge di carattere generale (la legge 31 dicembre 1996, n. 675 poi sostituita dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 intitolato "Codice di protezione dei dati personali") concernente anche dati raccolti, trattati e diffusi senza l'ausilio di strumenti elettronici e, quindi, con strumenti tradizionali, quali quelli cartacei (come risulta dal primo comma, lett. a dell'art. 4 e dal secondo comma dell'art. 5) e che non avesse ad oggetto solo la protezione dei nomi, ma ben più ampiamente la tutela della riservatezza e dell'identità personale (art.2) e - come mezzo particolare a questo fine di carattere più generale - dei dati personali intesi "come qualunque informazione, relativa a persona fisica, o giuridica o ente o associazione, identificati o identificabili anche, indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale" (art. 4, co. 1, lett. b).

Ci domandiamo subito: in questa definizione "di dati personali" rientrano anche le fotografie e i filmati in genere? Propendiamo a ritenere di sì, in quanto anche le immagini sono fonte di informazioni riconducibili alle persone rappresentate.

In tal caso l'art. 10 c.c. e gli art. 96, 97 e 98 del diritto d'autore, che ho poc'anzi citato, si dovrebbero ritenere implicitamente abrogati.

@3. La novità più grande: l'inibizione della formazione dell'informazione: la limitazione della libertà di ricerca e l'esonero per le raccolte aventi fini esclusivamente personali

Ma la novità più grande introdotta con la legge 675 del 1996 e sviluppata poi nel Codice di cui alla legge 196 del 2003 ora vigente (che, d'ora in poi, chiameremo soltanto Codice) sta non tanto nel carattere onnicomprensivo della tutela (nomi, numeri, immagini, quando da essi si possa risalire anche indirettamente a una persona determinata), quanto piuttosto inPage 11 una sorprendente e discutibile radicalizzazione della tutela. Mentre, infatti, le norme che vietavano, in nome della riservatezza, l'abuso dell'immagine di una persona, ne proibivano solo l'esposizione o la pubblicazione, ma - come ho già accennato - non l'acquisizione ad uso personale, invece le leggi dettate in questi ultimi anni per la protezione dei dati personali inibiscono o limitano la libertà della stessa raccolta, conservazione ed elaborazione dei dati anche se non esternarti (ciò anche se non comunicati a persone determinate o diffusi in pubblico), cioè anche se tenuti per sé: sono rivolte, cioè a impedire o a limitare la formazione stessa dell'informazione (può sembrare un bisticcio di parole, ma non lo è!), anche se questa non è destinata, nell'intenzione di chi la cerca, a essere comunicata a chicchessia o, peggio, diffusa in pubblico. Sotto questo aspetto, si tratta di leggi che limitano fortemente la libertà personale perché, in sostanza, proibiscono - o quanto meno limitano - la libertà della ricerca personale, anche se per proteggere altri dalle conseguenze del suo esercizio.

Lo stesso legislatore ha avvertito che una siffatta limitazione di libertà potesse essere considerata anticostituzionale e ha ritenuto di porvi rimedio sancendo, nel 3° comma dell'articolo 5, il principio che la legge sulla tutela dei dati personali non si applica (salvo per quanto concerne le disposizioni in tema di...

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