Tutela della privacy e attività medica

AutoreCristina Colombo
Pagine15-21

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Premessa. - La privacy è un concetto complesso, che lungo il corso del tempo si è caricato di una pluralità di significati 1 e si è evoluto insieme ai bisogni di tutela della persona collegati a nuovi modelli di lesione della sfera individuale posti in essere sia dai singoli che dai pubblici poteri. Solamente alla fine dell'800 incomincia a profilarsi l'esigenza di tutela della vita privata: da allora si è percorso un lungo cammino in tema di privacy, termine che ricomprende le svariate articolazioni del linguaggio tecnico-giuridico con il quale sono state, di volta in volta, definite espressioni come: «diritto alla vita privata», «diritto all'intimità personale» 2, «il diritto ad essere lasciati soli». Per comprendere l'evolversi del significato del termine è necessario risalire alla sua origine che è da ricondurre, in primis, al disgregarsi della società feudale (e al connesso sviluppo del senso di intimità) e, in secondo luogo, al passaggio da una società tipicamente rurale ad una urbana e industrializzata. Il criterio distintivo va allora ricercato nella natura dell'interesse rivestito dai fatti, rientrando nella sfera privata tutto ciò che riveste un interesse esclusivamente privato, perché privo di qualsiasi rilevanza pubblico-sociale, anche soltanto mediata; e, nella sfera pubblica, tutto ciò che presenta un interesse pubblico-sociale, diretto o mediato.

Nel mondo anglosassone, già nella seconda metà del secolo XIX, l'esigenza di tutela della vita privata si è venuta ad imporsi con grande intensità, precisamente negli USA, dove il right of privacy è andato estendendo la propria portata da quella iniziale e minimale del «diritto ad essere lasciato solo» ad una sorta di diritto della personalità.

Più tardi, questo processo ha avuto luogo nei Paesi europei 3: principalmente per il timore che le conquistate libertà collettive potessero in qualche modo essere compromesse apponendo ad esse limiti diversi da quelli tradizionali 4.

In Italia il dibattito sulla riservatezza si è sviluppato solo a partire dagli anni quaranta, all'inizio limitatamente al campo civilistico e solo in un secondo momento al campo penalistico con l'introduzione nel codice penale (L. 8 aprile 1974, n. 98) degli artt. 615 bis (interferenze illecite nella vita privata), 617 bis (installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche) e 617 ter (falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche). La tutela penale è stata poi integrata con la successiva introduzione nel codice penale, ad opera della legge 23 dicembre 1993, n. 547, degli artt. 615 ter (accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico), 615 quater (detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici), 615 quinquies (diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico), 617 quater (intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche), 617 quinquies (installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche), 617 sexies (falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche), ampliando ulteriormente l'ambito di tutela della riservatezza attraverso la protezione del sistema informatico 5.

Nel nostro Paese, il problema della tutela penale ha vissuto momenti alterni, poiché la dottrina è stata fortemente divisa tra coloro che consideravano indifferibile un'adeguata tutela penalistica della privacy, (e d'altronde, i predetti interventi legislativi sono nati proprio sulla spinta di tale filone dottrinario) e coloro che, invece, ritenevano sufficiente la tutela civile e la connessa sanzione risarcitoria estesa al danno non patrimoniale 6. Un'articolata disciplina della complessa materia delle «banche dati» è stata, così, introdotta dalla L. 31 dicembre 1996 n. 675 che ribadisce, come di seguito vedremo, l'importanza riconosciuta dall'ordinamento italiano al diritto alla privacy.

Con gli interventi legislativi del 1974, del 1993, ed infine con quelli del 1996, il nostro ordinamento ha completato, pertanto, il quadro della tutela penalistica dei diversi aspetti del diritto alla riservatezza, tutela che risulta, così, sostanzialmente ampliata rispetto a quella fornita dalle norme originariamente previste dal codice Rocco.

  1. Privacy e consenso: un collegamento necessario. - L'espresso riferimento alla figura del consenso, collegata necessariamente alla tutela della privacy, viene effettuato dagli artt. 22 ss. della legge 675 del 1996, che sottolineano, in primis, il bisogno di soffermarsi sulla scriminante ex art. 50 c.p., quale fondamento del c.d. consenso sui generis utilizzato in ambito sanitario. Risulta pertanto d'obbligo effettuare una panoramica, se pur breve, della sistematica del reato e in particolare della categoria dell'antigiuridicità - collegata direttamente alle scriminanti - e conseguentemente al consenso, ex art. 50 c.p., ed alla tutela della privacy: laddove il titolare del diritto dà il consenso alla diffusione dei propri dati non potrà sussistere alcuna fattispecie di violazione della privacy.

    Storicamente, si sono contrapposte due teorie, la cui differenza sostanziale sta appunto nell'includere o meno nella sistematica del reato, la nozione di antigiuridicità. Esse sono:

    1) la teoria bipartita 7;

    2) la teoria tripartita.

    1) La concezione bipartita, (nota come teoria degli elementi «negativi» del fatto) si è diffusa in Italia sulla scia di una concezione elaborata dagli studiosi di lingua tedesca. Essa trova comunque il suo precedente, nella nostra tradizione giuridica, nella composizione Carrariana del reato in «forza fisica» e «forza morale» 8. I suoi sostenitori suddividono il reato in due soli elementi costitutivi: l'elemento oggettivo, cioè il fatto materiale, e l'elemento soggettivo, cioè il diverso atteggiarsi della volontà, nelle forme del dolo e della colpa. Nel «fatto» rientrano gli elementi oggettivi presenti nella fattispecie legale e tutto ciò che rileva al fine del giudizio di illiceità della condotta, comprese le scriminanti intese come elementi del fatto preceduti idealmente dal «segno meno»: nel senso cioè di rilevare per la loro assenza. Il fatto risulta dunque dotato di tutti gli elementi costitutivi e privo di tutti gli elementi scriminanti. Nella «colpevolezza» rientra, invece, ogni considerazione relativa all'atteggiamento della volontà dell'autore (e perciò anche i motivi a delinquere). L'antigiuridicità, come elemento strutturale autonomo, non ha uno spazio vitale all'interno diPage 16 questa teoria. Le scriminanti, pertanto, vengono appunto considerate come meri «elementi negativi del fatto», e rientrano perciò nella dimensione «oggettiva» dell'illecito 9 10.

    2) La differenza fra «bipartizione» e «tripartizione» sta tutta nella diversa valutazione del ruolo dell'antigiuridicità e, di conseguenza, nella diversa collocazione delle scriminanti 10, che vengono a spostarsi dalla categoria del «fatto» a quella, appunto, dell'antigiuridicità. Largamente dominante in Germania e seguita in Italia da gran parte della dottrina, la teoria tripartita distingue nel reato tre elementi: il fatto tipico - quale fatto umano previsto dalla fattispecie legale - l'antigiuridicità - che indica la contrarietà del fatto rispetto all'intero ordinamento giuridico - e la colpevolezza - che consente di valutare l'attribuibilità psicologica del fatto al suo autore. Mentre nella teoria bipartita la valutazione dell'antigiuridicità resta assorbita dalla valutazione del fatto, in quella tripartita l'antigiuridicità costituisce una categoria concettuale autonoma che attribuisce il «segno positivo» alle singole cause di giustificazione 11. Il vantaggio fondamentale dell'antigiuridicità è ravvisato, dalla dottrina dominante, nella capacità di conferire autonomia concettuale alla categoria del «fatto» 12. Si è ritenuto che la tripartizione non sia che il riflesso di un modi di pensare l'illecito in termini processualistici 13. Ciò è pur vero, ma non esclude né diminuisce la validità della teoria tripartita. Fatto, antigiuridicità e colpevolezza scandiscono infatti i passaggi logici in cui si articola il processo mentale del giudice, confermando peraltro che il diritto penale non è una disciplina completamente disancorata dalla logica del processo.

    A questo proposito, restano fondamentali le osservazioni del DELITALA: «Il fatto (...) è il primo gradino che bisogna inevitabilmente percorrere per giudicare intorno alla punibilità di una azione individuale» 14.

    Va ribadito, tuttavia, che questa non è una mera formula processuale, bensì anche, e prima ancora, una formula euristica.

    1.1. In particolare: l'antigiuridicità. - L'antigiuridicità è la «nozione di teoria generale del reato nata storicamente per ultima» 15. La sua individuazione si deve principalmente a BELING 16, che ha codificato la scomposizione tripartita del reato. Già ai primi del '900 erano emerse le caratteristiche proprie della moderna categoria dell'antigiuridicità, che pur tuttavia, ancora oggi, non trova nel nostro ordinamento un completo riconoscimento legislativo, a differenza di quanto accade negli ordinamenti tedesco, austriaco e portoghese. Secondo ROXIN 17, gli elementi del reato individuati dalla teoria tripartita assolvono ciascuno una funzione specifica e perciò non intercambiabile. Il fatto tipico (Tatbestand) risponde ad esigenze di tassatività e determinatezza ed è posto a tutela della libertà; l'antigiuridicità è la sede della soluzione dei conflitti tra interessi individuali e interessi sociali; la colpevolezza, che fonda e limita la pretesa punitiva statale, concorre a esplicare una finalità di prevenzione. La tripartizione riflette dunque l'ordine teleologico di un diritto penale ormai laico e secolarizzato, che...

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