Fondamento e riflessi penalistici del diritto al rifiuto di trattamenti sanitari di sopravvivenza

AutorePietro Dubolino
Pagine391-400

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@1. Il fondamento normativo del “consenso informato”.

– È principio ormai comunemente accettato che il c.d. “consenso informato” da parte del paziente costituisce condizione imprescindibile di liceità di ogni trattamento diagnostico o terapeutico che non sia espressamente previsto come obbligatorio dalla legge, indipendentemente dalla circostanza che in assenza di quel trattamento il paziente sia destinato, in un tempo più o meno breve, a sicura morte. Ciò essenzialmente sulla base – si ritiene – dell’art. 32, comma secondo, della Costituzione, al quale si attribuisce il valore di norma posta a tutela di un fondamentale diritto di ogni persona umana a disporre di sé nel modo da essa ritenuto più confacente al proprio interesse ed alla propria visione della vita, senza dover in alcun modo soggiacere a decisioni che altri, sia pure con le migliori intenzioni, possano prendere nei suoi confronti. Non esisterebbe, quindi, un “dovere di curarsi” ma esisterebbe, per converso, un diritto di non curarsi, anche fino alle estreme conseguenze1.

Detto principio sembra tuttavia necessitare di qualche precisazione ed approfondimento, con particolare riguardo all’individuazione del suo fondamento normativo ed alle sue implicazioni, soprattutto in materia penale.

In primo luogo, e contrariamente alla communis opinio, non sembra potersi dire che la necessità del consenso, da parte del paziente (s’intende dotato di normale capacità di autodeterminazione) a trattamenti diagnostici e terapeutici a lui destinati sia nata con l’art. 32 della Costituzione, quasi che, in precedenza, esistesse un diritto incondizionato del medico a praticare detti trattamenti senza o contro la volontà dell’interessato. Non appare dubbio, infatti, che anche prima dell’entrata in vigore della Costituzione, il rapporto tra medico e paziente si configurasse (al pari di quanto avviene tuttora) come rapporto contrattuale di prestazione d’opera e richiedesse quindi, per sua natura, così come qualsiasi altro rapporto contrattuale, la prestazione di un consenso bilaterale, in assenza del quale l’attività “invasiva” che il medico avesse posto in essere sarebbe stata certamente illecita sotto il profilo civilistico e, con grande facilità, anche penalistico, in relazione, se non altro, all’ipotesi di reato della violenza privata, prevista dall’art. 610 c.p.2. Va da sé, poi, che, sempre in base ai principi generali che disciplinano la materia dei contratti, quel consenso, per esser valido, non avrebbe potuto che essere libero e, conseguentemente, in una qualche misura, anche “informato” giacché, altrimenti, il contratto sarebbe stato annullabile, a seconda dei casi, per errore, violenza o dolo, in base all’art. 1427 c.c.3.

La vera novità emergente dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale degli ultimi decenni non è, quindi, quella della necessità del consenso, ma piuttosto quella che esso debba essere “informato” in misura assai più rilevante di quella ritenuta in precedenza sufficiente; il che, se per un verso ha risposto ad un’avvertita esigenza di superare quello che, secondo una diffusa opinione, era il rapporto di tipo “paternalistico” tra medico e paziente, per altro verso ha anche avuto l’inconveniente di spingere, comprensibilmente, molti medici ad assumere atteggiamenti “difensivistici” non sempre collimanti con l’effettivo interesse dei pazienti stessi.

Anche la suddetta evoluzione normativa e giurisprudenziale, ancorché caratterizzata da frequenti richiami all’art. 32, comma secondo, della Costituzione, non appare tuttavia come un qualcosa che da esso dovesse ineluttabilmente derivare, in ragione del suo specifico contenuto precettivo, essendo questo costituito, in realtà, soltanto da una riserva di legge accompagnata dalla indicazione dei limiti di un non meglio precisato “rispetto della persona umana” entro i quali il legislatore ordinario si sarebbe dovuto mantenere. E la ragion d’essere di detta riserva di legge appare facilmente individuabile ove si consideri che nel primo comma dello stesso art. 32 la salute è qualificata, oltre che come “fondamentale diritto dell’individuo”, anche come “interesse della collettività”. Di qui la evidente (e giustificata) preoccupazione del costituente di evitare il pericolo che, invocandosi, a torto o a ragione, l’“interesse della collettività”, potesse imporsi, da parte della pubblica autorità, con semplici provvedimenti amministrativi, a singoli individui o a gruppi di persone, di soggiacere a trattamenti sanitari. D’altra parte, che la norma costituzionale in discorso non abbia inteso affermare l’assoluta ed in-Page 392derogabile necessità del consenso informato a giustificazione di ogni trattamento sanitario appare facilmente desumibile proprio dal fatto che essa stessa ammette che un tale trattamento possa essere imposto per legge e quindi, ovviamente, prescindendo da ogni e qualsiasi consenso dei destinatari4.

Per concludere, quindi, sul punto, sembra potersi affermare che, a livello di espressa previsione costituzionale, esiste solo il diritto di ciascuno di non essere sottoposto a trattamento sanitario in base a provvedimenti dell’autorità pubblica che non abbiano forza di legge e che non siano comunque rispettosi del limite costituito dal rispetto della persona umana, mentre il diritto, certamente esistente, di rifiutare il trattamento sanitario in assenza del proprio consenso informato ha però la sua naturale collocazione solo nell’ambito dei rapporti interprivati e trova il suo fondamento nel complesso delle leggi ordinarie dalle quali quei rapporti sono disciplinati (ivi compreso, sotto il profilo che qui interessa, anche l’art. 33 delle legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale, che stabilisce il carattere di norma volontario dei trattamenti diagnostici e terapeutici), potendosi tutt’al più ammettere che esista, anche per il diritto in questione, non più che una sorta di “sponda” costituzionale, quale potrebbe essere costituita dagli artt. 2 e 13 Cost. nella parte in cui, rispettivamente, impegnano la Repubblica a riconoscere e garantire i “diritti inviolabili dell’uomo” e affermano l’inviolabilità della libertà personale; “sponda”, quella anzidetta, alla quale, peraltro, potrebbe astrattamente contrapporsi anche quella, di segno contrario, ricavabile dallo spesso dimenticato comma secondo dell’art. 4 Cost., che impone ad ogni cittadino “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Appare infatti evidente che ad un tale dovere si sottrae, ad esempio, chi rifiuti, senza apprezzabile ragione, un trattamento sanitario che potrebbe valere a rendergli la perduta capacità di lavoro e a toglierlo, quindi, dalla condizione di chi costituisce un peso economico per gli altri consociati.

@2. Il suicidio come “facoltà” e non come “diritto”

– Escluso quindi, per le ragioni anzidette, che, con riguardo ai rapporti interprivati tra medico e paziente, il diritto di quest’ultimo di rifiutare i trattamenti sanitari, anche nella prospettiva che da ciò derivi, come sicura conseguenza, la morte, abbia un diretto fondamento nella Costituzione, vi è ora da chiedersi se esso equivalga ad una sorta di diritto al suicidio e sia come tale tutelato dall’ordinamento, sia pure a livello (come si è visto) di legge ordinaria5. Per rispondere a tale interrogativo occorre anzitutto ricordare che il suicidio, al pari dell’omicidio, può, ovviamente, essere realizzato nei modi più vari, con condotte tanto commissive quanto omissive. Un soggetto, ad esempio, può procurarsi la morte anche non alimentandosi più, qualora sia in grado di farlo autonomamente, ovvero rifiutando, qualora non lo sia, di essere alimentato da altri. E la cosa non cambia ove, invece delle sostanze destinate all’alimentazione, si tratti di sostanze o di trattamenti terapeutici da cui, nel caso specifico, dipenda la sopravvivenza, quando il rifiuto alla loro somministrazione o attuazione costituisca proprio lo strumento mediante il quale il soggetto intenda conseguire il risultato della propria morte. A fronte di un tal genere di condotte l’ordinamento giuridico rimane indifferente, nel senso che non prevede alcun tipo di obbligatorio intervento volto ad impedire la realizzazione del proposito suicida e, meno che mai, alcuna sanzione né civile né penale a carico del soggetto che quel proposito stia perseguendo6. Ciò non significa, però, che si sia in presenza di un vero e proprio “diritto”, ove per diritto si intenda (come sembra doversi intendere) una pretesa per la cui realizzazione, ove questa manchi per fatto di chi dovrebbe procurarla o consentirla, si possa chiedere ed ottenere il sostegno della forza dello Stato, mediante gli strumenti processuali a ciò predisposti, come si verifica, ad esempio, nel caso dei diritti di credito o di quello di proprietà. Lo Stato, infatti, mai potrebbe essere chiamato a sostegno della pretesa di chi, avendo in ipotesi ottenuto dal soggetto dal quale egli dipende per la quotidiana alimentazione l’impegno di astenersi, per il futuro, da tale incombenza, lamentasse la mancata osservanza di tale impegno. Il c.d. “diritto al suicidio” rientra quindi, a ben vedere, nell’indistinto novero delle mere “facoltà” le quali, siccome non vietate dall’ordinamento, si riassumono nel generico diritto di ciascuno a godere della libertà di porre in essere tutto ciò che non sia da alcuna norma proibito7. Anche a tali facoltà l’ordinamento riconosce, di norma, una protezione, ma soltanto indiretta, nel senso che esso può intervenire, a richiesta, per inibire o anche sanzionare comportamenti che siano in concreto impeditivi della loro realizzazione, senza però poi collaborare attivamente a che questa avvenga. Un tale intervento, tuttavia, non è previsto nel caso del suicidio, o meglio del tentativo di esso. E ciò non perché l’eventuale condotta di chi volesse, con la...

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