In tema di Responsabilitá per utilizzo di macchine operatrici prive dei requisiti di sicurezza

AutoreElena Del Forno j.
Pagine1324-1327

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La sentenza in commento pone un importante tassello nella panoramica giurisprudenziale in tema di responsabilità del datore di lavoro per infortunio ai danni del dipendente verificatosi nell'utilizzo delle macchine e attrezzature in uso nell'ambiente lavorativo durante lo svolgimento della mansione, in conseguenza della violazione delle norme di prevenzione e tutela della salute dei lavoratori contenute nel D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, in particolare in confronto con la responsabilità e gli obblighi dei costruttori.

Sin dagli anni settanta è stato chiaro ai giudici come fosse unico e generale il dovere di sicurezza in capo alle due categorie di soggetti, costruttori e datori di lavoro, dovere che poi di necessità si articolava in specifiche discipline giuridiche per la diversa posizione socio-economica da essi rivestita: da una parte i costruttori, in capi ai quali è fatto divieto di creare e immettere in circolazione apparecchi pericolosi (art. 7 D.P.R. 547/1955); dall'altra gli utilizzatori/datori di lavoro, che sono chiamati in causa dal legislatore per garantire la sicurezza del dipendente nell'ambito del rapporto di lavoro (art. 4 D.P.R. 547/1955) 1.

Da subito, gli interpreti si sono convinti che l'efficacia dei due precetti normativi esigesse il coordinamento tra i medesimi, considerando questa visione unitaria l'unica idonea ad assicurare una prevenzione tassativa e rigorosa degli infortuni, sin dalla radice delle loro possibili cause.

Da allora [1955], naturalmente sono intervenuti profondi cambiamenti nel tessuto sociale e grandi passi sono stati compiuti in materia di sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro, sol che si consideri che l'emanazione del «testo sacro» in materia di tutela della salute dei lavoratori è successiva di quasi mezzo secolo [1994].

Ma ripartiamo dalla più recente decisione della Suprema Corte.

Nel caso in esame, il legale rappresentante (datore di lavoro) di una società sita in Provincia di Torino, condannando in secondo grado per aver cagionato lesioni personali gravi a un proprio dipendente, ha proposto ricorso in Cassazione, senza tuttavia ottenere accoglimento alle proprie doglianze. Infatti, il riesame di legittimità ha confermato la lucida statuizione della Corte territoriale.

Era accaduto che nell'utilizzo di una macchina per il lavaggio e lo sgrassaggio di pezzi meccanici, un dipendente fosse stato investito da una fiammata provocata dall'incendio di una lampada, incendio a sua volta causato dallo schizzo di solvente sollevato da un pezzo caduto dalle mani dello stesso dipendente.

In causa, dalla ricostruzione dei fatti, è emerso con evidenza che l'estrema pericolosità, che comunque caratterizzava la macchina in questione sin dalla sua realizzazione, nonostante la marcatura CE, aveva causato l'evento dannoso per effetto della vicinanza del solvente.

I giudicanti si sono chiesti: posto che, in astratto, il costruttore è responsabile per i danni causati dall'immissione sul mercato di una macchina non rispondente alle regole di prevenzione, che succede se poi, nel caso concreto, il datore di lavoro non fa nulla per eliminare o quanto meno ridurre questa pericolosità, facendo affidamento sulla circostanza che la macchina sia stata progettata e costruita a regola d'arte? E così hanno risposto al quesito: la permanenza della responsabilità del fornitore non vale a escludere la responsabilità dell'utilizzatore (qui, datore di lavoro), il quale (proprio in quanto tale) è comunque obbligato nei confronti dei lavoratori a eliminare le fonti di pericolo. Questo, dunque, il principio affermato dalla sentenza.

In sostanza, il comportamento alternativo lecito era di fatto esigibile: in particolare, esigibile nei confronti dell'imputato era evitare che il liquido infiammabile (il solvente) fosse pericolosamente utilizzato dal lavoratore nei pressi della lampada incandescente.

Da qui la conferma della condanna.

Che cosa allora avrebbe potuto «salvare» l'imprenditore? Nella sentenza si trova la risposta anche a questo quesito. Secondo il ragionamento della Suprema Corte, la responsabilità dell'utilizzatore/datore di lavoro, derivante dall'aver concorso la condotta omissiva del medesimo a causare l'evento, avrebbe potuto essere esclusa solo a patto che il datore di lavoro fosse stato impossibilitato ad accertare l'elemento di pericolo durante la lavorazione; oppure che non avesse potuto riconoscere la violazione di regole di cautela nella progettazione o costruzione dello strumento in questione per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio (per esempio, perché riguardanti una parte non visibile e non raggiungibile).

Ogniqualvolta, invece, la non corrispondenza dell'apparecchio alle regole di prevenzione e di protezione della salute e della sicurezza sia più o meno agevolmente verificabile la colpa del datore di lavoro non deve essere esclusa.

Giusto osservare, del resto, che l'imprenditore è tenuto, proprio in quanto garante della sicurezza e della salute dei lavoratori, a uniformare la propria condotta a quella del modello di agente, dell'homo eiusdem condicionis et professionis. Non va dimenticato che il legislatore del 1942, con lungimirante anticipazione rispetto ai successivi approdi della migliore dottrina, lo ha definito, da subito, tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica (art. 2087 c.c.).

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È un onere certo gravoso per il datore di lavoro, che deve tenersi aggiornato costantemente sulla tecnica, acquisendo sempre maggiori esperienze anche nel costruttivo confronto con quelle di aziende similari, ma giustificato, a parere di chi scrive, dalle complessive finalità sociali perseguite dall'ordinamento, dall'esigenza, nulla lasciando al caso, che la...

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