La successione delle leggi penali

AutoreMaria Grazia Maglio/Fernando Giannelli
Pagine129-137

Page 129

@1. Questioni preliminari

Principio basilare in tema di successione di leggi è quello sancito dal testo dell'art. 11, primo comma, prel. c.c.

Identico era il testo dell'art. 2 prel. c.c. del 1865. In sede dommatico-espositiva, esso è reso con la famosa massima tempus regit actum.

Prendendo le mosse un po' «da lontano», dobbiamo segnalare che la Corte costituzionale, quanto alle leggi modificatrici della competenza, per materia e per territorio, ha stabilito il principio che esse non si applicano immediatamente ai processi in corso, se la competenza sia già radicata, in ossequio all'art. 25, primo comma, Cost. (BARILE).

L'art. 11 prel. c.c. è legge ordinaria, vale a dire di rango non costituzionale, e, quindi, sebbene non vi compaia la clausola «salvo che sia altrimenti stabilito», od altra equipollente, è ben possibile una deroga, espressa o tacita, al famoso principio (ma la Corte di cassazione, sostenendo l'applicabilità in via retroattiva dell'art. 513 c.p.p., come modificato dalla L. 7 agosto 1997, n. 267, ha tout court creato una deroga in via giurisprudenziale).

A volte la deroga è imposta dalla stessa struttura della legge: la legge interpretativa è un classico esempio di legge necessariamente retroattiva (BIANCA). Ma, come si vedrà fra poco, quest'ultimo principio non può trovare applicazione a proposito della legge penale incriminatrice.

Non vige, a livello costituzionale, un divieto di retroattività in materia processuale penale. In proposito vanno richiamate le discussioni, anche nella giurisprudenza costituzionale, circa la legittimità delle disposizioni in tema di custodia cautelare, di cui è stata ritenuta l'applicabilità ai procedimenti penali in corso.

Si è avuto, al riguardo, modo di precisare che, quanto all'ormai famigerato art. 275, terzo comma, c.p.p., come riformulato dall'ancor più famoso «decreto Martelli», non si è verificata alcuna violazione del principio di irretroattività stabilito dall'art. 11 prel. c.c. (anche se il legislatore ben avrebbe potuto prevedere siffatta retroattività, incorrendo solo, eventualmente, in sanzioni politiche, ma non in un vizio di illegittimità costituzionale) (PAGLIARO).

In effetti, non si trattò che di una banale applicazione di legge, anche se più sfavorevole, ai periodi di custodia cautelare, sempreché non fossero, i termini di custodia, perenti all'entrata in vigore del decreto, e, quindi, non più suscettibili di alcuna modifica, essendosi consumata, in tal caso, la situazione processuale in esame (v., oggi, art. 5, secondo comma, L. 8 agosto 1995, n. 332).

Le discussioni si erano, ad un certo punto, inasprite (onde l'intervento della Corte costituzionale, nel 1982), a causa della adesione di molta dottrina e giurisprudenza alla tesi della natura sostanziale dell'istituto della custodia cautelare, con la conseguente ritenuta, applicabilità dell'art. 2 c.p. (in materia: SINISCALCO) (trattasi di problematica relativa al D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito in L. 6 febbraio 1980, n. 15).

Un'altra materia «di confine» tra diritto penale sostantivo e diritto penale processuale, con implicazioni del tema che vorremmo affrontare, è quella inerente al quesito se possa essere applicato l'art. 2, terzo comma, c.p. (successione delle disposizioni soltanto modificative) anche quanto agli istituti della querela, istanza e richiesta.

La dottrina (VANNINI) che sostiene il carattere schiettamente processuale degli istituti in esame nega, coerentemente, l'applicabilità dell'art. 2, terzo comma, c.p., dettato quanto agli istituti di diritto penale sostantivo.

A diversa conclusione in materia di successione di leggi pervengono, ovviamente, quegli autori che sostengono il carattere misto dei suddetti istituti (condizioni di punibilità e procedibilità ad un tempo: PANNA IN, LEONE, DE MARSICO).

Non mancano, però, autori (ANTOLISEI, M. GALLO, SINISCALCO) che ritengono applicabile la disciplina della successione di leggi penali ai suddetti istituti, pur aderendo alla tesi della loro natura esclusivamente processuale.

In materia di misure di sicurezza bisogna distinguere tra il momento della previsione edittale, quello dell'applicazione, e quello della concreta esecuzione. In ordine ai primi due momenti si ritiene applicabile la disciplina dell'art. 2 c.p., mentre si ritiene l'applicabilità tout court del principio di cui all'art. 11 prel. c.c. quanto al «processo di sicurezza» (LEONE).

E tanto a prescindere dalla natura (penale od amministrativa?) delle misure in esame, poiché, per i primi due momenti, è innegabile il legame tra misura di sicurezza e fatto (almeno astrattamente) preveduto dalla legge come reato, salvi i casi di cui agli artt. 49, quarto comma, e 115 c.p. (VASSALLI).

Il MANZINI ravvisa, in materia di misure di sicurezza, una deroga al principio di irretroattività, sancito dall'art. 11 prel. c.c., e, più ancora, dall'art. 2, primo comma, c.p. E ciò sulla base della ritenuta natura amministrativa delle misure in questione, nonché sulla base del disposto dell'art. 55, R.D. 28 maggio 1931, n. 601.

Non possiamo essere d'accordo: come già visto, la natura non può influire sull'innegabile connessione con un fatto-reato; l'art. 55 del regio decreto citato, poi, riguarda, Page 130 solo, il trapasso dal codice Zanardelli al codice Rocco, non intendeva derogare, nello specifico tema, alla disciplina della successione di leggi penali.

E ciò è ancor più vero oggi, alla luce del combinato disposto degli artt. 1, 2, primo comma, c.p., 25, secondo e terzo comma, Cost.

Anche se la legge in vigore al tempo dell'esecuzione è più sfavorevole di quella in vigore al tempo dell'applicazione, prevale la prima (art. 200, secondo comma, c.p.).

@2. Il principio di irretroattività della legge penale incriminatrice

L'art. 2 del cessato codice penale così recitava: «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato»; nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisca reato, e, se vi sia stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali; «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato».

Il canone 1313 c.c. che recita: «Se, dopo che il delitto è stato commesso, la legge subisce mutamenti, all'imputato si deve applicare la legge più favorevole»; che, se una legge posteriore elimina la legge, o almeno la pena, questa cessa immediatamente.

Al paragrafo 1 del codice penale austriaco sono dettati principi di garanzia analoghi a quelli di cui al nostro art. 2.

L'art. 6 del codice penale della Repubblica socialista federativa sovietica della Russia così disponeva: «La criminosità e la punibilità d'un fatto sono determinate secondo la legge in cui esso fu compiuto».

La legge che esclude la punibilità d'un fatto o che attenua la pena ha effetto retroattivo, ossia si estende anche ai fatti commessi prima dell'emanazione di essa

.

La legge che prevede la punibilità d'un fatto o che ne aggrava la pena non ha effetto retroattivo

.

Prima di illustrare la disciplina dell'art. 2 c.p., riteniamo necessario premettere qualche considerazione sullo stato della dottrina in tema di tempus commissi delicti.

In dottrina ci si è chiesto, in pratica, quando è che un reato può dirsi, tecnicamente, «commesso», ai fini dell'applicazione dei vari commi dell'art. 2 c.p.

Commesso

, si badi, non equivale a «consumato», come di desume dal testo, ad esempio, dell'art. 61, nn. 2, 6, 9, 10 e 11 c.p., ove il termine «commesso» è usato a proposito di circostanze aggravanti certamente applicabili anche al delitto tentato (PANNAIN); non equivale, ancora, ad «esaurito» (CARRARA, BARSANTI, PANNAIN), poiché, come si vedrà a proposito del reato permanente, la consumazione, che è una species della commissione, può protrarsi, appunto, fino al momento dell'esaurimento del reato (es. rilascio dell'ostaggio, nel diritto di cui all'art. 630 c.p.).

Ciò precisato, è a dirsi che, quanto all'individuazione del momento in cui un reato è «commesso», domina la teoria c.d. dell'attività (ANTOLISEI): il reato è commesso quando, sotto l'impero di una legge, si è verificata la condotta esecutiva, poiché, in questo momento, si è verificata quella ribellione della volontà colpevole, che giustifica i rigori dell'ordinamento.

Ben si vede come tale teoria sia coerente con un'impostazione in chiave normativa della colpevolezza, atteggiamento che comporta, a nostro modo di vedere, la confusione tra dolo e conoscenza della legge penale (ma su tali concetti non è questa la sede per dilungarci).

Altra tesi è quella che vede il reato «commesso» solo al momento della verificazione dell'evento: solo in questo momento la lesione definitiva degli interessi meritevoli di tutela attraverso il ricorso alla sanzione penale giustificherebbe l'applicazione delle leggi penali, volta a volta più o meno favorevoli.

V'è anche una teoria «mista», o, meglio, «eclettica», secondo cui s'ha da guardare al momento della condotta, o a quello dell'evento, a seconda della soluzione più favorevole al reo (NUVOLONE).

Quanto al tempus commissi delicti, il PANNAIN afferma non doversi aderire ad alcuna delle suindicate teorie, poiché esse imporrebbero di considerare «monconi di reato», e non il reato nella sua necessaria unitarietà.

Aderendo, ad esempio, alla tesi dell'attività - afferma il PANNAIN - si giungerebbe all'assurdo, ai sensi dell'art. 79 della Costituzione, di applicare l'amnistia a quella parte di reato integrante gli estremi del tentativo, verificatasi anteriormente alla presentazione del disegno di legge, senza considerare la fase consumativa, verificatasi in momento successivo (art. 79, terzo comma, Cost.).

Qualche esempio chiarirà: se, prima dell'entrata in vigore di una legge incriminatrice, si ponga in essere la condotta di un reato e l'evento si verifichi dopo l'entrata in vigore, l'incriminazione sarebbe contraria...

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