Lo statuto processuale penale del mediatore

AutoreLorenzo Pulito
Pagine362-366
362
dott
4/2012 Arch. nuova proc. pen.
DOTTRINA
LO STATUTO PROCESSUALE
PENALE DEL MEDIATORE
di Lorenzo Pulito
SOMMARIO
1. Premessa. 2. Mediatore e segreto. 3. Le garanzie di libertà
del mediatore. 4. Spunti per la mediazione penale.
1. Premessa
Il ricorso a procedure di risoluzione alternativa delle
controversie è un fenomeno in costante crescita in molti
Paesi Europei, soprattutto in ambito civile e commerciale.
Le ADR (Alternative Dispute Resolution) in Italia si sostan-
ziano principalmente nell’arbitrato e nella conciliazione e
rappresentano la risposta privata offerta dall’ordinamento
per far fronte alle lentezze del processo e per ottenere una
maggiore semplif‌icazione degli apparati burocratici e una
riduzione del debito giudiziario.
Negli ultimi anni la necessità di una riduzione dei costi
economici connessi all’eccessiva durata delle procedure
giurisdizionali è stata più sentita, non solo perché uno Sta-
to privo di meccanismi in grado di assicurare un’ammini-
strazione della giustizia in tempi certi e rapidi scoraggia gli
investimenti stranieri, ma anche in ragione dei crescenti
oneri derivanti dai ricorsi individuali contro lo Stato ita-
liano innanzi la Corte Europea dei diritti dell’uomo per la
violazione dei termini di ragionevole durata del processo,
ai sensi della l. 21 marzo 2001, n. 89 (c.d. “legge Pinto”).
Queste istanze sono state oggi recepite dal legislato-
re italiano, che dopo una serie di interventi parziali, ha
emanato il d.l.vo 4 marzo 2010, n. 28 in materia di me-
diazione f‌inalizzata alla conciliazione delle controversie
civili e commerciali, in attuazione della delega conferita
al Governo dall’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69 (1).
Il provvedimento introduce una disciplina generale della
mediazione con l’obiettivo di diffondere la cultura del
ricorso allo strumento della conciliazione, già conosciuto
agli operatori del mondo giuridico ed economico, ma non
ancora del tutto sfruttato nelle sue potenzialità.
L’introduzione all’interno del panorama giuridico del
nostro Paese dello strumento della mediazione è frutto
non già di una scelta isolata del legislatore, ma consonante
con il contesto comunitario e con le pregresse esperienze
già presenti in Italia.
Il presente contributo intende soffermarsi sull’art. 10
del summenzionato decreto legislativo, avente rilevanza
processuale penale.
Nel primo dei due commi di cui si compone l’articolo si
codif‌ica il regime probatorio al quale sono assoggettate le
dichiarazione rese e le informazioni acquisite in vista del
giudizio (avente il medesimo oggetto anche parziale) che
segue alla mancata conciliazione: è prevista l’inutilizzabi-
lità, tanto che non è ammessa sulle stesse informazioni e
dichiarazioni né la prova testimoniale, né il giuramento
decisorio (resta, peraltro, sempre salva la possibilità per
le parti di derogare consensualmente a tale limite).
Nel secondo comma si stabilisce che «il mediatore non
può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiara-
zioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento
di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né da-
vanti ad altra autorità», prevedendosi l’applicabilità delle
disposizioni dell’art. 200 c.p.p. e l’estensione delle garan-
zie previste per il difensore dalle disposizioni dell’art. 103
c.p.p. «in quanto applicabili».
2. Mediatore e segreto
La previsione in esame integra il disposto della lett. d)
del comma 1 dell’art. 200 c.p.p. (in base al quale non pos-
sono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciu-
to per ragione del proprio ministero, uff‌icio o professione,
salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità
giudiziaria, «gli esercenti altri uff‌ici o professioni ai quali
la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre deter-
minata dal segreto professionale»), formulato in termini
volutamente ampi, nella consapevolezza che ciò avrebbe
tutelato l’insorgere di nuovi bisogni nell’ottica di protezione
dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (2).
Al di là dell’opportunità o meno della “delega in bianco”
sancita dalla disciplina processuale, la previsione espres-
sa contenuta nel citato art. 10 è da salutare con favore,
in quanto la sua mancanza avrebbe potuto comportare
l’insorgere di un dibattito come quello relativo al ricono-
scimento dello ius tacendi al giornalista (3), successiva-
mente superato con l’inserimento del comma 3 dell’art.
200 c.p.p. (4).
Una delle tecniche fondamentali della mediazione
consiste nel c.d. “Brain storming” (5), f‌inalizzato a riu-
scire a cogliere quello che è il reale obiettivo che le parti,
invitate a “vuotare il sacco”, intendono perseguire, sicché
la mediazione non potrebbe essere utilmente esercitata
senza il vincolo del segreto.
Tuttavia, la ratio della norma non risiede tanto nella
necessità di tutelare la professione in sé considerata,
quanto nel proteggere i sottesi diritti della persona uma-
na, costituzionalmente garantiti, che vengono coinvolti
dall’esercizio di quella, quali il diritto di difesa, inteso
nella accezione stragiudiziale (6) (o para-giudiziale, co-
stituendo la mediazione condizione di procedibilità nella
materie in cui è stabilita la sua obbligatorietà), nonché il
diritto alla segretezza e riservatezza.
Il mancato esercizio della facoltà di non deporre su
quanto conosciuto in ragione del proprio uff‌icio può espor-
re il mediatore al rischio di punibilità in base all’art. 622
c.p., laddove, come ritiene la dottrina, le propalazioni non
fossero legate ad una giusta causa (7).
Altra questione riguarda la sorte delle dichiarazioni rese
in contrasto con l’art. 622 c.p., dal momento che sussiste
diversità di vedute tra quanti ritengono la testimonianza

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