Il sistema elettorale del senato e della camera dopo la legge n. 270 Del 2005

AutoreAndrea Pertici
Pagine263-274

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@1. Introduzione

Come noto, fino alla metà degli anni novanta del XX sec., l'Italia aveva avuto un sistema elettorale proporzionale, il cui primo tentativo di superamento, in realtà, era stato compiuto con l. n. 148 del 1953 (nota come "legge truffa"), volta ad assegnare il 65% dei seggi parlamentari ai partiti apparentati che avessero superato la soglia del 50% dei voti. Il mancato raggiungimento di questa soglia nelle elezioni del 1953 (quando DC, PSDI, PLI e PRI, più alcuni partiti di carattere regionale, conseguirono tutti assieme il 49,8% dei voti) impedì l'applicazione del premio di maggioranza e determinò l'abrogazione della legge stessa nel 1954.

Dopo decenni di sostanziale condivisione del sistema proporzionale da parte della generalità delle forze politiche, all'inizio degli anni novanta, alcuni esponenti di diversi partiti si fecero promotori di una riforma in senso maggioritario delle leggi elettorali delle Camere, e - stanti le forti resistenze del Parlamento - decisero di realizzarle facendo ricorso al referendum popolare. In proposito, pare da precisare come la formulazione delle leggi elettorali delle Camere consentisse la trasformazione del sistema elettorale in maggioritario, attraverso il referendum abrogativo, soltanto per il Senato. Tuttavia, la prima richiesta di referendum presentata su parti della legge elettorale del Senato fu dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con sent. n. 47 del 1991 (che contestualmente respingeva anche quella relativa al sistema elettorale dei Comuni, ammettendo, invece, il quesito per l'eliminazione della preferenza multipla nel voto per la Camera dei deputati). Considerato che i motivi di inammissibilità accertati dalla Corte risultavano superabili (in quanto legati alla formulazione dei quesiti e non alla materia degli stessi), spinti anche dal consenso popolare riscontrato in occasione del referendum per l'eliminazione della preferenza multipla (cui partecipò il 62,5% degli aventi diritto e, tra questi, si espresse a favore dell'abrogazione il 98%), i promotori, l'anno successivo, ripresentarono i referendum sui sistemi elettorali del Senato e dei Comuni, che la Corte costituzionale questa volta dichiarò ammissibili (sentt. nn. 32 e 33 del 1993). Se il secondo fu superato dall'approvazione della l. n. 81 del 1993, il quesito sul sistema elettorale del Senato fu invece sottoposto al popolo (assieme a numerosi altri), vedendo la partecipa- Page 264 zione del 70% degli aventi diritto, e l'espressione di un voto favorevole alla trasformazione del sistema elettorale in senso maggioritario da parte dell'82% dei votanti. Sulla base di questo esito referendario, il Parlamento approvò le leggi nn. 276 e 277 del 1993, che stabilirono - rispettivamente per il Senato della Repubblica e per la Camera dei deputati - un sistema elettorale in cui il 75% dei seggi veniva assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre il restante 25% era attribuito con un sistema proporzionale, congegnato in modo parzialmente diverso per le due Camere.

Tale sistema elettorale è stato utilizzato nelle elezioni del 1994, del 1996 e del 2001, sembrando produrre effetti di progressiva tendenza al bipolarismo, pur nella proliferazione delle singole formazioni politiche, e - sebbene con qualche incertezza - di progressiva stabilizzazione dei Governi. Tuttavia, negli anni sono più volte emerse anche difficoltà di funzionamento della legge e alcuni problemi di adattabilità al quadro politico italiano. Ciò ha portato a più riprese a ipotizzare di riformare il sistema, nelle direzioni più diverse: dall'abolizione anche della residua quota proporzionale, alla previsione di un sistema maggioritario a doppio turno, ad un ritorno al sistema proporzionale, con varie ipotesi di "correzione", tra cui, in particolare, quelle del premio di maggioranza e/o di soglie di sbarramento più o meno elevate. In ogni caso, proprio per la presenza di opinioni assai diverse tra le forze politiche (anche interne alla medesima coalizione), il Parlamento per molti anni non è riuscito a portare avanti alcuna proposta di riforma delle leggi elettorali. Ciò, peraltro, ha determinato, ad un certo punto, la costituzione di nuovi comitati promotori di referendum per la modifica del sistema di attribuzione proporzionale del 25% dei seggi della Camera dei deputati, al fine di impedire ai singoli partiti politici (anziché alle coalizioni) di presentarsi agli elettori, mantenendo così una loro autonoma visibilità e uno specifico peso elettorale, che contribuisce alla frammentazione parlamentare e, di conseguenza, all'instabilità governativa. Il referendum, ammesso con sent. n. 13 del 1999, il successivo 18 aprile mancò per pochi decimali il quorum di partecipazione della maggioranza degli aventi diritto richiesto dall'art. 75, c. 4, Cost. Ripresentato, e, ovviamente, dichiarato di nuovo ammissibile dalla Corte con sent. n. 33 del 2000, il quesito mancò ancora, e anzi in misura ben più consistente, il quorum di partecipazione, e così si decise di abbandonare la strada referendaria per procedere alla riforma elettorale.

Anche durante la XIV legislatura erano più volte emerse posizioni favorevoli a un mutamento della legge elettorale, ma esse risultavano assai discordanti anche all'interno della stessa coalizione di Governo, e lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri si era nel tempo espresso a favore di sistemi elettorali differenti tra loro. Quindi, durante l'intera legislatura, il Parlamento ha dedicato poco spazio alle ipotesi di riforma delle leggi elettorali delle Camere, soffermandosi pressoché esclusivamente su proposte di limitata modifica di alcuni aspetti delle stesse, finché, nell'autunno del 2005, vi è stata un'improvvisa accelerazione, che ha condotto alla rapida approvazione della l. 21 dicembre 2005, n. 270 (v. § 2), a pochi mesi dalle elezioni, con i soli voti della maggioranza, in patente violazione, quindi, dei principi fissati nel "Codice di buona condotta elettorale", elaborato dal "Consiglio delle elezioni democratiche", operante nell'ambito del Consiglio d'Europa, sulla cui base le leggi elettorali devono avere stabilità, escludendosi, in particolare, che possano essere modificate nell'anno che precede le elezioni, e stabilendosi, d'altronde, che debbano essere disciplinate a livello costituzionale o, comunque, a un livello superiore a quello della legislazione ordinaria, anche per assicurare una condivisione tendenzialmente in grado di superare l'ambito della maggioranza di Governo. Page 265

@2. Il procedimento di approvazione della l. n. 270 del 2005

L'estemporaneità della decisione delle forze politiche della maggioranza di Governo della XIV legislatura di cambiare i sistemi elettorali delle Camere risulta particolarmente evidente dall'iter di approvazione della relativa legge.

Infatti, a seguito della presentazione di alcune proposte di parziale modifica delle vigenti leggi elettorali del 1993 (soprattutto per modificare o abolire il sistema del c.d. "scorporo" nella attribuzione con sistema proporzionale del 25% dei seggi della Camera dei deputati), la Commissione affari costituzionali della Camera ne aveva iniziato la trattazione in data 3 marzo 2005, con la relazione dello stesso Presidente Bruno. I lavori erano poi proseguiti nei mesi successivi, fino all'adozione, il 16 giugno 2005, di un testo base della Commissione che teneva conto delle varie proposte avanzate (da parlamentari delle diverse forze politiche, anche se prevalentemente d'opposizione). In tale data veniva fissato anche il 22 giugno come termine per la presentazione degli emendamenti. La discussione proseguì poi per alcune settimane, senza novità di particolare rilievo, finché, il 14 settembre 2005, i presidenti dei gruppi di maggioranza presentarono (evidentemente ben oltre la scadenza del termine previsto) due maxi-emendamenti volti a modificare integralmente il testo base già adottato dalla Commissione e, soprattutto, a introdurre un sistema elettorale ben diverso da quello vigente. Da questo momento i lavori parlamentari su questo testo unificato subirono una fortissima accelerazione, che portò alla conclusione della trattazione in commissione soltanto due settimane dopo, il 28 settembre 2005, a seguito di sole sette sedute, con assai rari interventi di esponenti della maggioranza. A questo punto, già il 29 settembre, si aprì la discussione in aula, con la relazione orale del Presidente Bruno, e l'approvazione (con emendamenti) avvenne in sole quattro sedute (con rarissimi interventi di parlamentari della maggioranza, ad eccezione, naturalmente, del relatore e del rappresentante del Governo), il 13 ottobre: presenti 335 (data la decisione del centrosinistra di non partecipare alla votazione), votanti 329, astenuti 6, favorevoli 323, contrari 6. La fretta era tale che il testo approvato dalla Camera fu immediatamente trasmesso al Senato, dove già il giorno successivo fu assegnato per la trattazione alla Commissione affari costituzionali, in cui assunse il ruolo di relatore il Presidente Pastore. La Commissione concluse i propri lavori il 23 novembre (dopo una discussione in cui risulta evidente la scarsissima partecipazione dei parlamentari di maggioranza). Già il giorno successivo, quindi, iniziò la discussione generale in aula (iscritta all'ordine del giorno prima della conclusione dell'esame in commissione), con una presenza molto attiva dell'opposizione, la quale presentò un elevato numero di emendamenti, tutti respinti. Il 14 dicembre, così, il Senato approvò il medesimo testo già approvato dalla Camera: presenti 286 (l'opposizione, in...

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