Sentenza Nº 53416 della Corte Suprema di Cassazione, 22-12-2014

Presiding JudgeIPPOLITO FRANCESCO
ECLIECLI:IT:CASS:2014:53416PEN
Date22 Dicembre 2014
Judgement Number53416
CourtSesta Sezione (Corte Suprema di Cassazione di Italia)
Subject MatterPENALE
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI
TORINO
nei confronti di:
M.V.
N
111
M.S.
N. IL
(omissis)
avverso la sentenza n. 3577/2013 CORTE APPELLO di TORINO, del
07/02/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 22/10/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ALESSANDRA BASSI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 4rb10 ?Oh. C--
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Penale Sent. Sez. 6 Num. 53416 Anno 2014
Presidente: IPPOLITO FRANCESCO
Relatore: BASSI ALESSANDRA
Data Udienza: 22/10/2014
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
OSCURATA
RITENUTO IN FATTO
1.
Con sentenza del 7 febbraio 2014, in riforma della sentenza di condanna
del 18 dicembre 2012 del Tribunale di Torino, sezione distaccata di Chivasso, la
Corte d'appello di Torino ha assolto
M.V.
e
M.S.
(rispettivamente Presidente del C.d.A. e Amministratore Delegato della Stac
Plastic Spray s.r.I.) dai reati loro ascritti di cui agli artt. 110, 81 cpv e 572,
commi 1 e 2, cod. pen. (capo A) e artt. 582, 583, comma 1 n. 1, 585 in
relazione all'art. 576 n. 1 cod. pen. (capo B), reati commessi in danno della
dipendente
I
MA.C.
I,
dal
(omissis)
(rectius
2010).
Il giudice di secondo grado ha rilevato che, quanto al reato di cui al capo A),
non sussistono i presupposti per ravvisare un'ipotesi di cd. mobbing sussumibile
nella fattispecie prevista dall'art. 572 cod. pen. facendo difetto il presupposto
della "para-familiarità" che deve caratterizzare il rapporto di lavoro; quanto al
reato di cui al capo B), manca la prova sia della riconducibilità della patologia
della
MA.
alla violenza psicologica subita sul luogo di lavoro, sia del dolo degli
imputati.
2.
Avverso il provvedimento ha presentato ricorso il Procuratore generale
della Repubblica di Torino, chiedendone l'annullamento per vizio di motivazione.
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale ha escluso la sussistenza dei
requisiti della para familiarità e della subordinazione del tutto apoditticamente ed
illogicamente laddove ha argomentato: 1) che un'azienda di venticinque
dipendenti è difficilmente compatibile con la personalizzazione del rapporto di
lavoro richiesta ai fini dell'art. 572 cond. pen., con ciò trascurando di considerare
lo stato di isolamento nel quale era stata posta la persona offesa; 2) che la
rilevante anzianità di servizio della persona offesa esclude lo stato di soggezione,
omettendo di valutare che l'azienda era gestita in modo "sostanzialmente
dittatoriale" dal
M.
con ovvio ridimensionamento di qualsiasi anzianità di
servizio o mansione; 3) che la personalizzazione del rapporto è esclusa dalla
adozione dell'atteggiamento discriminatorio nei confronti di tutte le lavoratrici
madri, quasi che la perpetrazione del medesima reato in danno di una pluralità di
soggetti possa costituire una causa di non punibilità del reo; 4) che la condizione
di subordinazione deve essere esclusa in ragione del fatto che la persona offesa
ha legittimamente tentato di far valere i propri diritti, laddove, così ragionando, il
reato di cd.
mobbing
esisterebbe soltanto in astratto. Per altro verso, il ricorrente
ha evidenziato come, nell'ipotesi in cui il fatto si ritenesse non sussumibile nella
fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen. per mancanza dei requisiti della para-
2
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OSCURATA
familiarità e della subordinazione, esso sarebbe comunque inquadrabile nella
ipotesi ex art. 610 cod. pen., in concorso con il reato di lesioni personali
aggravate.
3.
Nella memoria depositata nella Cancelleria di questa Corte, l'Avv. Luca
Dalla Torre, difensore di fiducia di
M.G.
e
M.S.
nel
chiedere che il ricorso proposto dal Procuratore generale sia rigettato, ha
evidenziato come, del tutto conformemente ai principi affermati dal giudice di
legittimità, la Corte territoriale abbia ritenuto insussistenti nel caso di specie i
presupposti per l'applicazione della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 572
cod. pen. alle condotte persecutorie del datore di lavoro in danno di un
dipendente (cd.
mobbing),
facendo difetto sia la para-familiarità, sia la
condizione di soggezione della vittima nei confronti del presunto persecutore. Ad
avviso del difensore degli imputati, sono inoltre generici la richiesta di qualificare
il fatto quale violenza privata ai sensi dell'art. 610 cod. pen. ed i motivi dedotti
quanto alla censurata assoluzione dal reato di cui al capo B).
4.
In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che la sentenza impugnata
sia annullata con rinvio e il difensore della parte civile ha insistito per
l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
2.
In via preliminare, giova ripercorrere gli snodi principali della motivazione
della decisione impugnata con la quale la Corte d'appello di Torino, ribaltando la
condanna pronunciata in primo grado dal Tribunale di Torino, sezione distaccata
di Chivasso, ha assolto gli imputati
M.V.
e
M.S.
da
entrambe le imputazioni loro elevate di maltrattamenti e di lesioni personali.
Quanto al reato di cui al capo A), il giudice di secondo grado ha rilevato che,
nella specie, non sussistono i presupposti per ravvisare un'ipotesi di cd. mobbing
sussumibile nella fattispecie prevista dall'art. 572 cod. pen., non essendo
ravvisabili i presupposti della "familiarità" che deve caratterizzare il rapporto di
lavoro, atteso che si tratta di un'azienda di venticinque dipendenti, che il
rapporto di lavoro si è sviluppato per ampio lasso temporale, che manca il
requisito della personalizzazione dell'atteggiamento discriminatorio, trattandosi
di "prassi costante" solitamente applicata a tutte le dipendenti in maternità, e
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OSCURATA
che il comportamento posto in essere dalla persona offesa esclude in radice lo
stato di soggezione, dal momento che ella si rivolgeva sia all'autorità giudiziaria,
denunciando i datori di lavoro, sia ai mezzi di informazione.
Con riguardo al reato di cui al capo B), la Corte ha posto in luce, per un
verso, come la documentazione sanitaria versata in atti non evidenzi elementi
chiari e sufficienti per ritenere che la patologia riscontrata nella
MA.
sia
compatibile con le caratteristiche di una violenza psicologica esercitata sul luogo
di lavoro; per altro verso, come manchi la prova del dolo degli imputati di
cagionare le lesioni personali in danno della persona offesa.
3.
Ritiene il Collegio che le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale a
corredo della decisione non offrano una congrua e ragionevole giustificazione del
giudizio assolutorio formulato nei confronti degli imputati con riguardo ad
entrambi le imputazioni elevate. In particolare, il tessuto motivazionale della
sentenza in verifica presenta aspetti di evidente illogicità del ragionamento
seguito dal giudice d'appello e contiene affermazioni distoniche rispetto ai
principi espressi da questa Suprema Corte in materia, sì da integrare il
denunciato vizio di cui alla lett. e) del comma 1 dell'art. 606 cod. proc. pen.
Giova premettere come la fattispecie di maltrattamenti in famiglia,
tradizionalmente concepita in un contesto familiare, sia stata nel tempo estesa -
ed in tale senso è l'attuale disposto normativo dell'art. 572 cod. pen. - anche a
rapporti di tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e custodia
nonché a rapporti professionali e di prestazione d'opera. Proprio avendo riguardo
a tale ultima categoria di rapporti, questa Suprema Corte ha riconosciuto la
possibilità di sussumere nella fattispecie dei maltrattamenti commessi da
soggetto
investito di autorità
in contesto lavorativo la condotta di cd.
mobbing
posta in essere dal datore di lavoro in danno del lavoratore, quale fenomeno
connotato da una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti reiterati nel tempo
convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a
isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro, aventi dunque carattere
persecutorio e discriminatorio (Cass. Sez. 5, n. 33624 del 09/07/2007, P.C. in
proc. De Nubblio, Rv. 237439).
Avuto riguardo alla
ratio
dell'art. 572 c.p. - che si sostanzia quale delitto
contro l'assistenza familiare -, affinchè la condotta persecutoria e maltrattante
del datore di lavoro in danno del dipendente possa essere sussunta nella
fattispecie incriminatrice in parola è indispensabile che il rapporto interpersonale
sia caratterizzata dal tratto della "para-familiarità": l'ampliamento ad opera della
giurisprudenza del perimetro delle condotte che possono configurare il delitto di
maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo - familiare ha invero
4
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lasciato invariata la collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice nel
titolo dei delitti in materia familiare, di tal che, ai fini della integrazione del reato,
non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto di subordinazione/sovra
ordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-
familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all'autorità di
un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche
lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per
l'affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all'azione di chi
ha ed esercita su di lui l'autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare,
caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse ogni
relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del
datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità para-
familiare, idonea ad imporre la qualificazione, in termini di violazione dell'art.
572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un
contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile con evidente profilo
di irragionevolezza del sistema (Cass. Sez. 6, n. 685 del 22/09/2010, P.C. in
proc. C., Rv. 249186; Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, Rv. 252607; Sez. 6, n.
24642 del 19/03/2014, Pg in proc. G, Rv. 260063).
Secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, le pratiche
persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua
emarginazione (cd. "mobbing") possono dunque integrare il delitto di
maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di
lavoro e il dipendente assuma natura para - familiare, in quanto caratterizzato
da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti,
dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia -
soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello
che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest'ultimo, di
obblighi di assistenza verso il primo (da ultimo, Sez. 6, n. 24642 del
19/03/2014, Pg in proc. G., Rv. 260063; Cass. Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013,
Rv. 255976). Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia
nell'ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto
attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un
potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di
soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia
riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare. (Fattispecie relativa a
condotte vessatorie poste in essere nell'ambito di un rapporto tra un sindaco e
un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato
previsto dall'art. 572 cod. pen.) (Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P.,
Rv. 251368)
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4. Di tali condivisibili principi non ha fatto buon governo la Corte piemontese
laddove ha affermato l'insussistenza di un contesto interpersonale di natura
para-familiare sulla base di argomentazioni contrarie a logica ed a comuni
massime d'esperienza nonché a diritto.
4.1. In primo luogo, la sussistenza (o insussistenza) di un rapporto di
natura para-familiare non può essere desunta dal dato - meramente quantitativo
- costituito dal numero dei dipendenti dell'impresa nell'ambito della quale siano
commesse le condotte in ipotesi maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi
sull'aspetto qualitativo,
id
est
sulla natura dei rapporti intercorrenti tra datore di
lavoro e lavoratore. Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para
familiarità allorchè ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e
continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a
quella caratterizzante il consorzio familiare (come nel caso della collaborazione
domestica svolta in ambito familiare) o comunque caratterizzata da un rapporto
di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare, il quale
gestisca l'azienda con atteggiamento "padronale" e, dunque, in modo autoritario
sì da innestare quella dinamica relazionale "supremazia - subalternità" che si
ritrova nelle relazioni fra soggetti che si trovino ad operare su piani diversi.
Una relazione di siffatta natura difficilmente potrà essere configurata in
realtà aziendali di notevoli dimensioni, nell'ambito delle quali i rapporti fra
dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati (non
potendosi peraltro escludere dinamiche para-familiari nell'ambito dei singoli
reparti e, dunque, nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto). In caso
di piccole o medie imprese (come appunto nella specie), la valutazione sul punto
non può invece prescindere da una attenta indagine sulle effettive dinamiche
relazionali intercorrenti fra titolare e lavoratore, sì da rilevare la sussistenza o
meno di uno stato di soggezione nei termini sopra delineati.
4.2. Allo stesso modo, la para-familiarità non può essere ritenuta
insussistente, come argomentato il giudice
a quo,
in considerazione del fatto che
il rapporto di lavoro si sia sviluppato per ampio lasso temporale.
Anche a tale proposito deve invero essere ribadito come la sussistenza di
una situazione parafamiliare dipende dalla intensità e dalla natura della relazione
interpersonale intercorrente fra datore di lavoro e dipendente più che dalla
durata temporale della relazione stessa, potendo le condotte ostili e persecutorie
del primo, tese alla mortificazione ed all'isolamento del lavoratore, essere
tollerate per molti anni da quest'ultimo in ragione di una situazione di bisogno
economico e mancanza di alternative professionali. Risulta pertanto priva di
ragionevole fondamento la regola d'esperienza applicata dal giudice d'appello,
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secondo cui l'anzianità di servizio sarebbe inversamente proporzionale alla
potenzialità di diventare soggetto passivo del cd.
mobbing.
4.3.
Né la para-familiarità può essere esclusa dal fatto che l'atteggiamento
discriminatorio non fosse riservato alla sola persona offesa, ma costituisse una
"prassi costante" applicata abitualmente dal datore di lavoro nei confronti di
tutte le dipendenti rientrate in azienda dopo un periodo di maternità.
Del tutto contraria a logica e diritto si appalesa l'affermazione fatta dal
giudice distrettuale, secondo la quale "la prassi costante posta in essere dagli
imputati nei confronti di un numero indeterminato di dipendenti madri è agli
antipodi con un'intensificazione peculiare ed individualizzata del rapporto di
lavoro, presupposto necessario per la sussistenza del reato di cui all'art. 572 cod.
pen.". La circostanza che i comportamenti discriminanti e prevaricatori siano
attuati nei confronti di più di una persona offesa, in un ambito che possa
appunto ritenersi para-familiare, non è invero di per sé suscettibile di escludere
la sussistenza della condizione di soggezione e di subordinazione che caratterizza
la fattispecie
de qua.
Si deve ancora una volta ribadire come, a tale fine, debba
essere verificata l'essenza della relazione e, dunque, la concretezza di una
situazione di subalternità del lavoratore rispetto all'atteggiamento oppressivo,
ingiusto e prevaricante serbato dal titolare, piuttosto che la reiterazione
dell'atteggiamento penalizzante nei confronti di una stessa categoria di soggetti
alle proprie dipendenze, nella fattispecie quella delle lavoratrici madri (ma ciò
potrebbe ovviamente valere anche per lavoratori accumunati da condizioni
soggettive diverse, quali quella di straniero ovvero di apprendista).
Seguendo il ragionamento della Corte si finirebbe invero per affermare che
la replica dell'atteggiamento discriminatorio nei confronti di una categoria
omogenea di lavoratori sia idonea di escludere in radice il crearsi di una
situazione di subalternità e soggezione: come perspicuamente osservato dal
ricorrente Procuratore generale, tale circostanza, anziché essere considerata
come indicativa di una particolare intensità del dolo valutabile a carico del reo in
sede di determinazione della pena, fungerebbe addirittura quale causa di non
punibilità a favore dell'imputato, con conseguenze all'evidenza paradossali e
contrarie, prima che al diritto, alla logica comune. Del resto, mai si è negata la
configurabilità del reato di maltrattamenti commesso in un canonico contesto
familiare allorchè le condotte aggressive, prevaricatorie ed umilianti siano
esperite dal
pater familias
abitualmente e sistematicamente nei confronti di tutti
i membri di una famiglia molto numerosa.
4.4.
Parimenti illogico e, pertanto, censurabile è l'ultimo passaggio del
percorso motivazionale della sentenza in esame, laddove la Corte ha escluso la
sussistenza della condizione di subordinazione in considerazione dei
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comportamenti posti in essere da
MA.C.
li
nel denunciare, all'Autorità
giudiziaria, al sindacato ed ai media, il fatto di essere vittima di cd.
mobbing
da
parte dei datori di lavoro.
Ed invero, lo stato subordinazione e di soggezione del lavoratore vittima
rispetto al datore di lavoro, quale
condicio sine qua non
per la sussumibilità del
cd.
mobbing
nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, deve
sussistere all'atto delle condotte vessatorie ed oppressive e non può essere
escluso -
ex post - dal fatto che la vittima, dopo avere subito un sistematico e
continuativo atteggiamento discriminatorio, abbia azionato tutti gli strumenti di
reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione e denunciare i fatti
affinchè possano essere perseguiti.
Seguendo il ragionamento dei giudici d'appello, si dovrebbe giungere
all'affermazione del principio, del tutto illogico ed irragionevole, che il reato
de
quo
sia configurabile soltanto a condizione che la vittima accetti passivamente le
vessazioni subite e che la successiva reazione della persona offesa, che abbia
adito le vie legali e denunciato ai mezzi d'informazione i fatti di cui sia stata
vittima, sia suscettibile di esentare da penale rilevanza il comportamento
criminale posto in essere, col che il reato di cd. mobbing -
così come larga parte
delle incriminazioni penali in danno alla persona, soprattutto quelle procedibili a
querela - verrebbe ad essere configurabile soltanto in astratto.
4.5.
Alla stregua delle su esposte considerazioni, la sentenza impugnata
deve essere annullata con riguardo al reato di cui al capo A) con rinvio alla Corte
d'appello di Torino, che dovrà procedere ad un nuovo giudizio sul punto facendo
applicazione dei principi di diritto sopra espressi.
In particolare, la Corte d'appello di Torino dovrà verificare l'esistenza di una
situazione para-familiare e di uno stato di soggezione e subalternità di
MA.C.
rispetto ai
M.
avendo riguardo - non al numero dei dipendenti
dell'azienda, alla durata del rapporto di lavoro, alla reiterazione del condotte
discriminatorie nei confronti di una pluralità di soggetti ed alla reazione della
vittima - bensì, da un lato, alle dinamiche relazionali in seno all'azienda e, nello
specifico, a quelle intercorrenti fra la lavoratrice ed i datori di lavoro imputati;
dall'altro lato, all'esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità
della vittima, confrontandosi con le condotte, oggetto di specifica contestazione,
attuate dai
M.
in danno della
MA.
quali - sintetizzando l'ampia
elencazione - l'assegnazione a mansioni diverse e meno qualificanti da quelle
svolte prima della maternità o addirittura a nessuna mansione (costringendola a
rimanere seduta per ore su di una sedia nel corridoio), nel ghettizzarla ed
lasciarla fuori da occasioni conviviali comuni ai lavoratori (la cena aziendale,
dalla quale veniva esclusa mediante comunicazione scritta visibile da tutti i
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dipendenti), nell'adottare nei confronti della medesima provvedimenti disciplinari
sino al licenziamento per "giusta causa", poi riconosciuta dal giudice del lavoro
come inesistente, e, quindi, nel rifiutare di dare attuazione al disposto reintegro
nel posto di lavoro nonché, data forzata attuazione a tale provvedimento,
nell'attuare comportamenti ostili, persecutori, denigratori e lesivi della dignità
personale della dipendente. La Corte territoriale dovrà prendere attentamente in
esame le circostanze obbiettivamente accertate nell'istruttoria dibattimentale ed
esplicitare, con motivazione attenta ed immune da vizi logico giuridici, le ragioni
per le quali le evenienze indicate dalla pubblica accusa come sintomatiche
possano o meno tali da integrare il reato contestato.
Il giudice d'appello dovrà, inoltre, verificare se le condotte attuate dagli
imputati in danno della persona offesa siano connotate dai caratteri
dell'abitualità, della sistematicità e dell'intenzionalità persecutoria, necessari ai
fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 572 c.p.
5.
La motivazione della sentenza in verifica si appalesa viziata anche con
riguardo al reato di lesioni personali.
5.1.
L'apparato motivazionale svolto sul punto dalla Corte d'appello risulta
invero illogico e contraddittorio laddove, per un verso, si censura il metodo
seguito dal primo giudice allorchè ha ritenuto non necessario disporre perizia
medico legale pur in presenza in atti di "due documenti che avrebbero dovuto
fare sorgere più di un dubbio" che la patologia riscontrata nella
MA.
non fosse
compatibile con la violenza psicologica sul luogo di lavoro; per altro verso,
rigettata la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale avanzata dagli
imputati finalizzata a disporre perizia o quantomeno a sentire il consulente
medico legale della difesa, si confutano le conclusioni del consulente della parte
civile sulla base di documentazione sanitaria redatta a fini diversi da quelli
oggetto del sindacato della Corte territoriale e, soprattutto, formata in epoca
antecedente ai fatti (il primo certificato è del 1997) o comunque in una fase solo
iniziale delle contestate condotte maltrattanti (il secondo certificato è del 4
marzo 2008).
5.2.
L'impianto argomentativo risulta viziato anche sotto diverso profilo,
nella parte in cui la Corte ha ritenuto non provato che gli imputati intendessero
cagionare alla persona offesa lesioni o uno stato di malattia di natura psico-
fisica, valorizzando, per un verso, lo "stato di intensa tensione che si era creato
fra le parti", per altro verso, la possibile convinzione degli imputati circa la
legittimità dei provvedimenti disciplinari adottati nei confronti della
MA.
Con
ciò omettendo di confrontarsi con il dato obbiettivo costituito dalla reiterazione
per un ampio intervallo temporale delle condotte in ipotesi maltrattanti e, quindi,
9
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
OSCURATA
lesive, consistite - a tenor di contestazione - nel demansionamento, in condotte
denigratorie ed ingiuriose, nella adozione di provvedimenti umilianti e
ghettizzanti rispetto agli altri lavoratori nonché nella elevazione di ripetute e
pretestuose contestazioni disciplinari sino al licenziamento per asserita, quanto
inconsistente, "giusta causa".
Ed invero, secondo il costante insegnamento di questa Corte, la sussistenza
dell'elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia - dolo generico -
non implica l'intenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad
una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell'agente di
persistere in un'attività vessatoria
(ex plurimis
Cass. Sez. 6, n. 16836 del
18/02/2010, M. e altro, Rv. 246915).
5.3.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio anche
con riguardo alla imputazione sub capo
B).
Nel giudizio di rinvio, nell'ipotesi in cui ritenga sussistenti i presupposti di
entrambi i delitti, il giudice d'appello dovrà - in senso contrario a quanto
argomentato incidentalmente nella sentenza impugnata - ritenere integrate
entrambe le ipotesi delittuose, atteso che, secondo i consolidati principi di questo
giudice di legittimità, il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di
percosse e minacce, anche gravi, ma non quello di lesioni, attesa la diversa
obiettività giuridica dei reati (Cass. Sez. 6, n. 13898 del 28/03/2012, S., Rv.
252585).
6.
Alla luce della pronuncia di annullamento con rinvio, le spese sostenute
in questo grado dalla parte civile dovranno essere liquidate dalla Corte d'appello
all'esito del giudizio di merito.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'Appello di
Torino per nuovo giudizio.
Così deciso in Roma il 22 ottobre 2014
Corte di Cassazione - copia non ufficiale

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