Sentenza Nº 16283 della Corte Suprema di Cassazione, 20-06-2018

Presiding JudgeLOMBARDO LUIGI GIOVANNI
ECLIECLI:IT:CASS:2018:16283CIV
Judgement Number16283
Date20 Giugno 2018
CourtSeconda Sezione (Corte Suprema di Cassazione di Italia)
Subject MatterCIVILE
SENTENZA
sul ricorso 5197-2014 proposto da:
ROSITO MARIA GIUSEPPA, elettivamente domiciliata a ROMA,
Viale Regina Margherita 269, presso lo studio dell'Avvocato
ANNA DI BIANCO e rappresentata e difesa dall'Avvocato
DONATO MICHELE DEL VECCHIO per procura speciale a
margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
ROSITO MARIO GIOVANNI, elettivamente domiciliato a ROMA,
via di Pietralata 320/D, presso lo studio dell'Avvocato
GIGLIOLA MAZZA e rappresentata e difesa dall'Avvocato
GUIDO DE ROSSI, per procura speciale in calce al controricorso
- controricorrente -
Civile Sent. Sez. 2 Num. 16283 Anno 2018
Presidente: LOMBARDO LUIGI GIOVANNI
Relatore: DONGIACOMO GIUSEPPE
Data pubblicazione: 20/06/2018
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
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avverso la sentenza n. 1199/2013 della CORTE D'APPELLO di
BARI, depositata il 23/9/2013;
udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del
10/4/2018 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO;
sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto
Procuratore Generale della Repubblica, FULVIO TRONCONE, il
quale ha concluso per l'accoglimento del terzo motivo e per il
rigetto dei restanti motivi del ricorso;
sentito, per la ricorrente, l'Avvocato DONATO MICHELE DEL
VECCHIO;
sentito, per il controricorrente, l'Avvocato GUIDO DE ROSSI;
I FATTI DI CAUSA
Maria Giuseppa Rosito, convenuta in giudizio, innanzi al
tribunale di Lucera, dal fratello Mario Giovanni Rosito, ha
proposto domanda riconvenzionale volta ad ottenere la
declaratoria di nullità e di inefficacia del contratto, stipulato con
rogito per notaio Matteo D'Angelo del 16/6/1981, con il quale i
suoi genitori, Michele Rosito e Rosa Nardella, hanno donato, in
favore dell'attore, una parte dell'immobile di loro proprietà, sito
al terzo piano dell'edificio in S.Paolo Civitate, via XX Settembre
n. 56, e composto da due piccoli vani, accessori e terrazza a
livello, oltre alla comproprietà delle parti comuni dell'edificio, tra
cui l'atrio con bagno al secondo piano e la gradinata di accesso.
A sostegno della domanda, Maria Giuseppa Rosito ha
dedotto che: - l'immobile sito al secondo piano dello stabile le
era stato donato, con relativo "soffitto", dai genitori Michele
Rosito e Rosa Nardella, con atto stipulato con rogito per notaio
Antonio Rossi in data 23/12/1980; - i locali donati all'attore, in
quanto costruiti da oltre cinquat'anni come dipendenza
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dell'appartamento sottostante, facevano, in realtà, parte
dell'immobile donatole; - l'atto di donazione del 1981 era,
quindi, nullo per mancanza, nei donanti, del potere di disporre
del bene in quanto già donato in precedenza.
In forza di tali fatti, Maria Giuseppa Rosito ha chiesto che il
tribunale, in accoglimento della domanda proposta, dichiari
"nullo e privo di effetti il contratto di donazione stipulato da
Rosito Michele e Nardella Rosa in favore di Rosito Mario
Giovanni con rogito per Notaio Matteo D'Angelo in data
16/6/1981 ... in quanto tale atto è successivo al rogito per
notaio Antonio Rossi di Campobasso del 23/12/1980 ...
contenente donazione da parte dei predetti Rosito Michele e
Nardella Rosa a favore di Rosito Maria Giuseppa dell'intero
immobile situato in S. Paolo Civitate - Via XX Settembre n. 64
(ora n. 56) ..."
e dichiari, di conseguenza, che
"Mario Giovanni
Rosito non è titolare di diritti di proprietà, né in esclusiva, né in
comunione, sull'immobile predetto".
Il tribunale, con sentenza dell'11.13/11/2008, ha rigettato la
domanda.
Secondo il tribunale, l'esame congiunto e comparativo delle
due donazione conduce alla conclusione che il soffitto donato
con l'atto del dicembre del 1980 non possa essere identificato
con l'immobile donato all'attore e posto al terzo piano del
fabbricato, in tal senso deponendo una serie di rilievi a
carattere assorbente, e cioè: a) il primo atto di donazione,
stipulato nel mese di dicembre del 1980, contiene un generico
riferimento al "soffitto", mancando la benché minima
descrizione dello stesso; b) nel primo atto, nulla è detto in
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ordine alla terrazza a livello posta al terzo piano ed abbinata,
nel secondo atto del giugno del 1981, all'immobile donato
all'attore; c) quest'ultimo immobile, nell'atto del 1981, è stato
compiutamente descritto, quanto alla sua composizione; d)
nello stabile che comprende gli immobili per cui è causa, è
presente anche un ripostiglio, posto al quarto piano, che, per le
sue dimensioni, si presta ad essere definito come "soffitto",
come emerge dalle piantine allegate alla consulenza tecnica
d'ufficio; e) l'atto del giugno del 1981, completo sotto il profilo
della descrizione degli immobili donati anche con riferimento
alle parti comuni, non contiene alcun riferimento al ripostiglio al
quarto piano, essendo indicato, invece, un ripostiglio all'interno
dell'appartamento al terzo piano, come si evince dalle piantine
allegate alla consulenza tecnica d'ufficio. L'insieme di questi
elementi, valutati nel loro complesso, consente di ritenere - ha
aggiunto il tribunale - che la volontà dei donanti, genitori delle
parti in causa, non possa essere interpretata nel senso di
attribuire, per spirito di liberalità, a Maria Giuseppa Rosito
anche l'immobile sito al terzo piano ed oggetto della successiva
donazione in favore dell'attore. Quest'ultimo immobile, infatti,
ha osservato ancora il tribunale, in ragione delle sue
caratteristiche strutturali, si presta ad essere ragionevolmente
ad essere qualificato come un vero e proprio appartamento, e
non anche come un "soffitto", che implica più l'idea di un
ripostiglio da adibire ad un uso diverso da quello abitativo,
rientrando, di contro, nel significato di "soffitto" il ripostiglio
presente al quarto piano dello stabile, posto che si tratta di un
vano di piccole dimensioni e di altezze inferiori ai due metri
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sicché, tenuto conto della evidente lacunosità dell'atto di
donazione del 1980 nella parte relativa alla descrizione degli
immobili donati alla convenuta, contrapposta alla puntualità,
sotto il medesimo profilo, dell'atto del 1981, non può, in
definitiva, ritenersi, ha concluso il tribunale, che il soffitto di cui
al primo atto sia da identificare nell'appartamento posto al terzo
piano donato all'attore.
Maria Giuseppa Rosito ha proposto appello, cui ha resistito
Mario Giovanni Rosito, il quale ha chiesto l'integrale conferma
della sentenza impugnata.
La corte d'appello di Bari, con sentenza del 23/9/2013, ha
rigettato l'appello ed ha, per l'effetto, confermato la sentenza
impugnata.
La corte, in particolare, dopo aver premesso, in fatto, che: -
l'atto del 1980 ha attribuito all'appellante il primo ed il secondo
piano dello stabile
"con relativo soffitto",
mentre l'atto del 1981
ha attribuito all'appellato un
"appartamentino"
al terzo piano,
dettagliatamente descritto; - l'immobile, come è rimasto
pacifico, ha un locale
"ripostiglio",
sito al di sopra del terzo
piano, ovvero al quarto piano; - tra l'atto del 1980 e l'atto del
1981 la consistenza dell'immobile non è mutata; ha ritenuto
che la locuzione
"soffitto",
contenuta nel primo atto, dev'essere
interpretata nel senso di
"soffitta".
Ed infatti, ha osservato la
corte, le espressioni che possono avere più sensi devono essere
intese, ai sensi dell'art. 1369 c.c., dettato in tema di
interpretazione dei contratti ma applicabile anche alla
donazione, nel senso più conveniente alla natura ed all'oggetto
del contratto, per cui
«è del tutto evidente che il termine
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"soffitto", inteso come "superficie inferiore, visibile dal basso,
della copertura di una stanza", non ha alcun senso, perché il
soffitto è parte necessaria di ogni unità immobiliare, se essa è
formata da più piani e l'ultimo di essi non è "a cielo aperto"»,
dovendosi, piuttosto, intendere l'espressione come
"soffitta",
che indica
"la parte dell'edificio compresa tra l'ultimo piano e il
tetto dello stabile".
D'altra parte, ha aggiunto la corte, anche
volendo intendere la locuzione
"soffitto"
in senso letterale, non
può certamente affermarsi che l'appellante abbia ricevuto, in
donazione, anche il terzo piano: sostenere che il
"soffitto"
di cui
all'atto del 1980 sia, in realtà, identificabile con il terzo piano
donato con l'atto del 1981, è contrario, ha affermato la corte,
ad ogni principio di logica giuridica, non potendosi, infatti,
trascurare che l'atto del 1981 espressamente descrive il terzo
piano come costituito da un
"appartamentino"
al quale non può
certo attribuirsi la destinazione di
"soffitta",
anche perché,
nell'immobile, vi è una
"soffitta"
che, però, è posta al terzo
piano.
Né rileva, ha aggiunto la corte, che i locali al terzo piano non
siano dotati di un autonomo accesso, in quanto, pur volendo
aderire alla tesi della loro accessorietà rispetto ad una unità
immobiliare principale, ai sensi dell'art. 818, comma 2°, c.c., le
pertinenze possono formare oggetto di separati atti o rapporti
giuridici.
E
neppure rileva, ha osservato ancora la corte, la sua
interclusione, posto che l'atto del 1981 ha attribuito a Mario
Giovanni Rosito «i
diritti proporzionali di proprietà delle parti
comuni dello stabile del quale fa parte la porzione immobiliare
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donata, con particolare riferimento alla scalinata di accesso e
l'atrio comune al secondo piano, di proprietà Rosito
Giuseppina».
In definitiva, la corte, in dichiarata applicazione del principio
ermeneutico per il quale, nell'interpretazione del contratto, si
deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e
non limitarsi al senso letterale delle parole, ha ritenuto che
"dall'esame complessivo e comparato dei due atti di donazione,
emerge che i donanti hanno disposto dei tre piano che
compongono l'immobile, nonché della "soffitta", attribuendo alla
figlia Maria Giuseppa, i primi due piani e la "soffitta", posta al di
sopra del 3° piano (o 4° piano), ed al figlio Mario Giovanni, il
terzo piano, dando, anche, disposizioni sulle parti comuni
dell'immobile".
Se fosse vera la tesi dell'appellante, ha
osservato ancora la corte, non si vede per quale ragione i
genitori delle parti in causa, avendo inteso già donare nel 1980
l'intero immobile alla figlia, abbiano, poi, disposto, nel 1981, del
terzo piano, donandolo al figlio. Del resto, se effettivamente i
donanti avessero voluto donare l'intero immobile alla figlia, non
si comprenderebbe affatto la clausola contenuta nell'atto del
1980, che regola i diritti proporzionali di proprietà sulle parti
comuni dello stabile, così come non si comprenderebbe la
ragione per la quale anche l'atto del 1981 fa riferimento alle
parti comuni ed all'accesso al terzo piano, tramite la scala posta
al secondo piano.
La corte, infine, respinta la tesi dell'appellante in ordine al
profilo dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c., essendo del
tutto evidente che, avendo proposto la domanda
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riconvenzionale volta ad ottenere la declaratoria di nullità della
donazione del 1981, la qualità di attore, che ha l'onere di
provare i fatti posti a fondamento dell'azione, spetta,t nella
specie, non a Mario Giovanni Rosito ma proprio all'appellante.
La corte, quindi, respinta, alla luce del chiaro ed
inequivocabile quadro processuale, la richiesta dell'appellante di
convocazione a chiarimenti del consulente tecnico di ufficio,
nominato in primo grado, ha respinto l'appello e confermato,
per l'effetto, la sentenza impugnata.
Maria Giuseppa Rosito, con ricorso notificato il 17/2/2014,
ha proposto, per cinque motivi, la cassazione della sentenza
resa dalla corte d'appello.
Ha resistito, con controricorso spedito per la notifica il
28/3/2014, Mario Giovanni Rosito.
La ricorrente ha depositato memoria.
LE RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando l'omesso
esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione
tra le parti, ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., la violazione
dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., e la
violazione dell'art. 132, comma 2°, c.p.c., in relazione all'art.
360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte
in cui la corte d'appello, occupandosi, come già accaduto in
primo grado, esclusivamente di stabilire il significato da
attribuire alle parole "soffitto" o "soffitta" e rigettando la
richiesta di ammissione di consulenza tecnica di ufficio, ha
totalmente ignorato il problema, pur diffusamente prospettato,
dell'appartenenza alla particella catastale n. 516/26,
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interamente a lei donata in proprietà esclusiva ("...
i coniugi
Rosito Michele e Nardella Rosa dichiarano ... di donare come in
effetti ... donano in favore della figlia Rosito Maria Giuseppa, che
... accetta, ... la vecchia casa di abitazione ... costituita da un
piano terra, confinante con portone di ingresso... ed un secondo
piano con relativo soffitto ... il tutto riportato in catasto alla ...
particella 510/26..."),
delle aree del secondo piano sulle quali
l'atto di donazione successivo ha costituito una comunione in
favore di Mario Giovanni Rosito, e cioè l'atrio" (che, come
emerge dalle fotografie prodotte, è un locale centrale
dell'appartamento, sul quale vi sono gli usci di accesso a due
camere e al bagno, e non un atrio esterno allo stesso) e la
scalinata di accesso dal primo al secondo piano
("i ... coniugi
Rosito Michele e Nardella Rosa hanno dichiarato di voler donare,
come in effetti ... donano, ..., in favore dell'altro costituito ...
Rosito Mario Giovanni, che ... accetta, il seguente immobile:
appartamentino al terzo piano, ... con ingresso comune dal
civico 64 della Via XX Settembre; esso è composto di due
camere, disimpegno, ripostiglio e terrazzo a livello, ...con i diritti
proporzionali di proprietà sulle parti comuni dello stabile del
quale fa parte lo immobile in oggetto, con particolare
riferimento alla scalinata e l'atrio comune al secondo piano di
proprietà di Rosita Giuseppina, nulla escluso od eccettuato.
L'immobile in oggetto risulta regolarmente denunziato all'UTE di
Foggia con scheda registrata il 16/2/1981 al n. 20 mod.
97"),
con i conseguenti vizi di motivazione e di violazione di legge
prospettati, non essendovi alcuna ragione per escludere
l'accertamento catastale, posto che i dati catastali assumono
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valore probatorio quando ad essi si faccia espresso riferimento
come elemento indicativo dell'ampiezza e dei confini
dell'immobile trasferito, come è accaduto nel caso di specie, in
cui l'atto in favore della ricorrente riporta espressamente la
particella n. 516/26.
2.11 motivo è infondato. Intanto, il vizio di omessa
pronuncia, che determina la nullità della sentenza per violazione
dell'art. 112 c.p.c., si configura solo quando manchi qualsiasi
statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di
parte, sì da dar luogo alla inesistenza di una decisione sul punto
per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla
soluzione del caso concreto, e non può dipendere, pertanto,
come dedotto nella specie, dalla mancata ammissione di
un'istanza di prova, qual è, ai fini in esame, la richiesta di
consulenza tecnica di ufficio. Né sussiste il denunciato vizio di
motivazione. La sentenza impugnata, in quanto depositata dopo
1'11/9/2012, è assoggettata, infatti, all'art. 360 n. 5 c.p.c., nel
testo in vigore successivamente alle modifiche apportate
dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni
con la I. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza del
giudice d'appello può essere impugnata con ricorso per
cassazione solo in caso omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ed
è noto come, secondo le Sezioni Unite (Cass. n. 8053 del
2014), tale norma consente di denunciare in cassazione solo
l'anomalia motivazionale che - relativamente al solo giudizio di
fatto (configurandosi i vizi inerenti al giudizio di diritto come
errori
in iudicando,
censurabili ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c.,
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mentre, se riguardano propriamente la relativa motivazione,
non danno luogo alla cassazione della sentenza ma solo alla sua
correzione ex art. 384, ult. comma, c.p.c.) - si tramuta in una
violazione del
"minimo costituzionale"
richiesto dall'art. 111,
comma 6°, Cost., individuabile nelle ipotesi (che si convertono
in violazione dell'art. 132, comma 2°, n. 4, c.p.c. e danno luogo
a nullità della sentenza) in cui tale anomalia si esaurisca nella
"mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e
grafico",
nella
"motivazione apparente",
nel
"contrasto
irriducibile tra affermazioni inconciliabili"
e nella
"motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile"
(esclusa
qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della
motivazione), al di fuori delle quali il vizio di motivazione può
essere dedotto solo come omesso esame di un fatto storico,
principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire
che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della
controversia (Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 14014 del
2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n.
7472 del 2017). Nel caso di specie, la corte d'appello ha
chiaramente e coerentemente spiegato le ragioni, come sopra
descritte, per le quali ha ritenuto che i donanti non avessero
inteso a suo tempo donare l'intero immobile alla figlia sicché,
escluso senz'altro che la sentenza impugnata sia inficiata dal
vizio, in effetti neppure dedotto, della
"mancanza assoluta di
motivi sotto l'aspetto materiale e grafico",
della
"motivazione
apparente",
del
"contrasto irriducibile tra affermazioni
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inconciliabili"
ovvero della
"motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile",
si tratta di verificare se possa,
o meno, ravvisarsi, nei termini illustrati, il vizio dell'omesso
esame di un fatto decisivo per il giudizio. Rileva, sul punto, la
Corte che la ricorrente ha indicato, quale fatto storico non
esaminato ma decisivo per il giudizio, l'appartenenza alla
particella catastale n. 516/26, interamente a lei donata in
proprietà esclusiva con l'atto del 1980, delle aree del secondo
piano sulle quali l'atto di donazione del 1981 ha costituito una
comunione in favore di Mario Giovanni Rosito, e cioè l'atrio" e
la scalinata di accesso. Sennonché, nel rispetto delle previsioni
degli artt. 366, comma 1°, n. 6, e 369, comma 2°, n. 4, c.p.c.,
il ricorrente, nel dedurre l'omesso esame di un fatto decisivo
per il giudizio, ha l'onere di indicare non solo il "fatto storico",
principale (e cioè il fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o
estintivo) ovvero secondario (cioè dedotto in funzione di prova
di un fatto principale), il cui esame sia stato omesso, ma anche
il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il
"come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione
processuale tra le parti e la sua "decisività" (Cass. n. 14014 del
2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n.
20188 del 2017, in motiv.), fermo restando che l'omesso esame
di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso
esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in
causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie (Cass. n. 8053 cit.). Nel caso di specie, invece, la
ricorrente non ha in alcun modo indicato, riproducendone nel
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ricorso il testo ovvero indicandone precisamente la collocazione
tra gli atti di causa, l'atto o il documento da quale emerge, nella
sua esatta estensione, il fatto storico, e cioè l'appartenenza
dell'atrio" e della scalinata di accesso alla particella n. 516/26,
il cui esame sarebbe stato omesso, tanto più a fronte della
deduzione, svolta dal controricorrente (v. p. 11 del
controricorso), secondo la quale
"la scalinata e l'atrio indicate
nella richiamata donazione del 1981 non sono incluse nella
planimetria catastale della particella 510/26".
3.Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando la
violazione degli artt. 817 e 818, commi 1° e 2°, c.c., in
relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza
impugnata nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto
irrilevante la circostanza che i locali al terzo piano non siano
dotati di un autonomo accesso sul rilievo che, pur a voler
aderire alla tesi della loro accessorietà, l'art. 818 c.c. prevede
che le pertinenze possano formare oggetto di separati atti o
rapporti giuridici, laddove, in realtà, i vani posti al servizio
esclusivo di un immobile seguono, al pari delle pertinenze, la
corte dell'immobile principale, per cui, se l'immobile viene
alienato, non restano nel patrimonio del titolare. Nel caso di
specie, quindi, ha osservato la ricorrente, l'intero immobile è
stato trasferito a Maria Giuseppa Rosito sicché non rileva che i
locali in soffitta, e cioè "l'appartamentino", non sono stati
indicati nell'atto, tanto più se si considera che l'atto per notar
Rossi trasferisce l'immobile al secondo piano ed il relativo
soffitto con tutti i diritti, ragioni, azioni, dipendenze e
pertinenze, con un'espressione tale da comprendere anche i
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locali posti in soffitta.
E
poiché l'atto è stato trascritto, ha
concluso la ricorrente, esso, in quanto precedente, prevale
sull'atto successivo.
4.11 motivo è infondato. La ricorrente, infatti, dà per
scontato che, in fatto, sussistesse, tra gli immobili che le sono
stati donati e i locali al terzo piano, un vincolo (di
incorporazione o di pertinenzialità) tale che, trasferiti i primi,
anche i secondi, sebbene non richiamati nell'atto, le sono stati
alienati. In effetti, come il vincolo pertinenziale presuppone la
sussistenza tra la cosa principale e la pertinenza di un rapporto
economico e giuridico di strumentalità e complementarietà
funzionale (Cass. n. 2804 del 2017, in motiv.), così, nel caso
dell'incorporazione, in cui taluni vani siano posti al servizio
esclusivo di un bene immobile, le parti concorrono,
pariteticamente e unitariamente, all'utilizzazione funzionale di
tale immobile in relazione alla sua destinazione (Cass. n. 2016
del 1998). Tanto l'uno, quanto l'altro caso, tuttavia,
presuppongono un accertamento in fatto, da parte del giudice di
merito, sui relativi presupposti materiali che, nella specie, la
sentenza impugnata, senza che alcuna censura le sia stata
mossa al riguardo, non ha affatto operato.
5.
Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la
violazione dell'art. 1117 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.,
ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte
d'appello ha ritenuto che l'atto del 1981 ha attribuito a Mario
Giovanni Rosito
«i diritti proporzionali di proprietà delle parti
comuni dello stabile del quale fa parte la porzione immobiliare
donata, con particolare riferimento alla scalinata di accesso e
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l'atrio comune al secondo piano, di proprietà Rosito
Giuseppina»,
dando, così, per scontato la condominialità di
talune parti dell'edificio, vale a dire la scalinata dal primo al
secondo piano e l'atrio, i quali, invece, in quanto comprese nella
particella n. 510/26, erano già state donate, in via esclusiva, a
Maria Giuseppa Rosito, e non potevano, quindi, come tali,
rientrare tra le cose comuni, neppure ai sensi dell'art. 1117 c.c.,
il quale presume la proprietà comune sui locali e le opere
destinate ai servizi comuni o che servano all'uso e al godimento
comune, salvo che non vi sia la prova che il bene, per le
obiettive caratteristiche strutturali, serva in modo esclusivo
all'uso o al godimento di una parte dell'immobile oggetto di un
autonomo diritto di proprietà, come nel caso di specie, in cui la
scala di accesso al secondo piano è sorta con questa esclusiva
funzione, mentre l'atrio è sempre stato un'area interna
dell'appartamento, senza essere mai stati al servizio di altre
unità immobiliari del fabbricato, anche dopo la costruzione dei
due locali in soffitta.
6.11 motivo è infondato. La corte d'appello, infatti, non ha
alcun modo fatto applicazione (e, tanto meno, violazione)
dell'art. 1117 c.c., essendosi, in realtà, limitata a prendere atto
del fatto che l'atto del 1981 aveva attribuito a Mario Giovanni
Rosito
«i diritti proporzionali di proprietà delle parti comuni dello
stabile del quale fa parte la porzione immobiliare donata, con
particolare riferimento alla scalinata di accesso e l'atrio comune
al secondo piano, di proprietà Rosito Giuseppina»,
sicché non
aveva rilevanza il fatto che i locali al terzo piano non fossero
dotati di un autonomo accesso.
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)
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7.Con il quarto motivo, la ricorrente, lamentando la
violazione e la falsa applicazione dell'art. 1362 c.c., in relazione
all'art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata
nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto che a Maria
Giuseppa Rosito sia stata donata, insieme al secondo piano, la
"soffitta"
posta tra il terzo piano e il tetto dello stabile, e che a
Mario Giovanni Rosito sia stato attribuito il terzo piano,
trascurando, in tal modo, di considerare che, al momento della
stipulazione dell'atto per notar Rossi, e non del successivo atto
di donazione del 1981, la comune intenzione dei contraenti era
quella di trasferire alla figlia l'abitazione dei donanti, costituita
dall'appartamento al secondo piano e dai due sovrastanti
localini privi di servizi e costituenti parte indivisibile
dell'appartamento sottostante, con unico accesso dal
medesimo, non essendovi nulla, in que4'atto, che rivelasse la
volontà di trasferire alla figlia solo l'appartamento al secondo
piano ed un ripostiglio al quarto piano.
8.11 motivo è infondato. Rileva la Corte che, in linea di
principio, l'interpretazione di un atto negoziale è tipico
accertamento in fatto riservato al giudice di merito,
normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che,
ratione temporis,
nelle ipotesi di omesso esame di un fatto
decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del
c.d.
"minimo costituzionale"
del sindacato di legittimità sulla
motivazione, ai sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., nella
formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi
dell'art. 360, comma 1°, n. 3, c.p.c., per violazione dei canoni
legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall'art. 1362 e ss.
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c.c. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.; Cass. n. 7927 del
2017). Costituisce, in effetti, principio di diritto del tutto
consolidato presso questa Corte quello per cui, con riguardo
all'interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale
adottata dal giudice di merito, l'invocato sindacato di legittimità
non può avere ad oggetto la ricostruzione della volontà delle
parti (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.), che appartiene
all'ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice,
ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei
canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore
agli artt. 1362 e ss. c.c., e sulla (in) coerenza e (il) logicità
della motivazione addotta: l'indagine ermeneutica, è, in fatto,
riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere
censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della
motivazione o per violazione delle relative regole di
interpretazione (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.; Cass. n.
7927 del 2017, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere,
quindi, ad oggetto solamente l'individuazione dei criteri
ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si
sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di
verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di
diritto (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.). Pertanto, al fine di
riscontrare l'esistenza dei denunciati errori di diritto o vizi di
ragionamento, non basta che il ricorrente faccia un astratto
richiamo alle regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., occorrendo,
invece, che specifichi i canoni in concreto inosservati e il punto
e il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato
(Cass. n. 7472 del 2011). Nel caso di specie, la ricorrente ha, in
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sostanza, censurato la sentenza impugnata per aver trascurato
la volontà dei contraenti quale emerge dall'atto del 1980. Si
tratta, tuttavia, di un rilievo che non tiene conto del fatto che,
al contrario, come questa Corte ha avuto modo di affermare in
tema di interpretazione del contratto, risponde ad orientamento
consolidato che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei
contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal
senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate (Cass.
n. 7927 del 2017, in motiv.), precisandosi, tuttavia, che il
rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev'essere
verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, le singole
clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro
procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363
c.c., giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la
formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua
parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte
soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di
più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro
frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. 23701 del
2016, in motiv.; Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.). Il giudice,
in particolare, per ricostruire la volontà delle parti, deve tener
conto anche del loro comune comportamento, pur se successivo
alla stipulazione (Cass. n. 14006 del 2017). Nell'interpretazione
del contratto, il dato testuale, pur assumendo un fondamentale
rilievo, non può, quindi, essere ritenuto decisivo ai fini della
ricostruzione del contenuto dell'accordo, giacché il significato
delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al
termine del processo interpretativo, il quale, a sua volta, non
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può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole
ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed
extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le
espressioni appaiano di per sé chiare e non bisognose di
approfondimenti interpretativi. Infatti, un'espressione
prima
facie
chiara può non apparire più tale se collegata ad altre
contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al
comportamento complessivo delle parti e del loro
comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione
del contratto. In breve, tali due criteri concorrono fra loro in via
paritaria nel definire la comune volontà delle parti e non sono
tra loro in competizione o in relazione gerarchica (Cass. n.
24560 del 016). Nel caso in esame, la corte d'appello, dopo
aver evidenziato che: - l'atto del 1980 ha attribuito
all'appellante il primo ed il secondo piano dello stabile
"con
relativo soffitto",
mentre l'atto del 1981 ha attribuito
all'appellato un
"appartamentino"
al terzo piano,
dettagliatamente descritto; - l'immobile, come è rimasto
pacifico, ha un locale
"ripostiglio",
sito al di sopra del terzo
piano, ovvero al quarto piano; - tra l'atto del 1980 e l'atto del
1981 la consistenza dell'immobile non è mutata, ha ritenuto che
la locuzione
"soffitto",
contenuta nel primo atto, dovesse essere
interpretata nel senso di
"soffitta".
Ed infatti, ha osservato la
corte,
«è del tutto evidente che il termine "soffitto", inteso
come "superficie inferiore, visibile dal basso, della copertura di
una stanza", non ha alcun senso, perché il soffitto è parte
necessaria di ogni unità immobiliare, se essa è formata da più
piani e l'ultimo di essi non è "a cielo aperto" »,
dovendosi,
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piuttosto, intendere l'espressione come
"soffitta",
che indica
"la
parte dell'edificio compresa tra l'ultimo piano e il tetto dello
stabile".
Secondo la corte, in definitiva,
"dall'esame complessivo
e comparato dei due atti di donazione, emerge che i donanti
hanno disposto dei tre piano che compongono l'immobile,
nonché della "soffitta", attribuendo alla figlia Maria Giuseppa, i
primi due piani e la "soffitta", posta al di sopra del 3° piano (o
4° piano), ed al figlio Mario Giovanni, il terzo piano, dando,
anche, disposizioni sulle parti comuni dell'immobile".
Si tratta,
come è evidente, di un'interpretazione senz'altro rispettosa dei
criteri ermeneutici prima esposti, volta com'è a dare rilievo
tanto al dato letterale, quanto, a fronte della sua equivocità,
alle altre clausole dello stesso contratto ed al comportamento
complessivo delle parti, quale si è espresso nel successivo atto
di donazione compiuto dai medesimi donanti con riguarda ad
altra porzione dello stesso immobile. Del resto, per sottrarsi al
sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell'ermeneutica
contrattuale, quella data dal giudice al contratto non deve
invero essere l'unica interpretazione possibile o la migliore in
astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni,
sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o
più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che
aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di
merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata
privilegiata l'altra (Cass. n. 16254 del 2012).
9.Con il quinto motivo, la ricorrente, lamentando la
violazione e la falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., in relazione
all'art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata
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nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto che la Rosito,
avendo proposto la domanda riconvenzionale volta ad ottenere
la declaratoria di nullità della donazione del 1981, avesse
assunto la qualità di attore, con il conseguente onere di provare
i fatti posti a fondamento dell'azione proposta, laddove, in
realtà, tale prova era stata fornita dall'appellante.
10.
Il motivo è infondato. La violazione della norma
prevista dall'art. 2697 c.c. può, infatti, porsi nel solo caso in cui
il giudice abbia ritenuto che l'attore non ha l'onere di fornire la
prova dei fatti che costituiscono il fondamento del diritto che ha
fatto valere ovvero che il convenuto non ha, a sua volta, l'onere
di dimostrare i fatti estintivi, modificativi o impeditivi dedotti in
giudizio e, quindi, in definitiva, quando abbia assunto la sua
decisione ripartendo tra le parti l'onere probatorio in modo
difforme rispetto a quanto prescritta dalla predetta norma: non
certo nel caso, come quello di specie, nel quale la corte ha
semplicemente ribadito che spettava alla ricorrente, quale
attrice in via riconvenzionale, la prova dei fatti costituenti il
fondamento della domanda di nullità che aveva proposto
ritenendo, più semplicemente, che tale prova non è stata
fornita.
11.
Il ricorso, per l'infondatezza di tutti i motivi
formulati, dev'essere, quindi, rigettato.
12.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono
liquidate in dispositivo.
13.
La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti
per l'applicabilità dell'art. 13, comma
1-quater,
del d.P.R. n.
115/2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della I. n.
---
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228/2012.
P.Q.M.
La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la
ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che
liquida in C. 4.200,00, di cui C. 200,00 per esborsi, oltre SG per
il 15% ed accessori di legge. Dà atto della sussistenza dei
presupposti per l'applicabilità dell'art. 13, comma
1-quater,
del
d.P.R. n. 115/2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17,
della I. n. 228/2012.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione
Seconda Civile, il 10 aprile 2018.
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