La semiplena probatio delle dichiarazioni del testimone assistito al vaglio della consulta: un'occasione mancata

AutoreGiuseppe Luigi Fanuli
Pagine137-145

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@1. La questione sollevata dal giudice a quo.

L'art. 197 bis c.p.p. nel disciplinare la figura di nuovo conio del testimone assistito prevede, al sesto comma, che alle dichiarazioni dello stesso «si applica la disposizione di cui all'art. 192 comma 3 c.p.p.». Disposizione che, come è noto, con riferimento alle dichiarazioni di coimputati nel medesimo reato o in procedimento connesso, postula, ai fini della valorizzazione in chiave probatoria, l'esistenza di «riscontri esterni» alle dichiarazioni.

Per effetto di tale richiamo normativo si sono totalmente equiparate ai fini della valenza probatoria le dichiarazioni rese dal testimone assistito a quelle rese dalle persone di cui all'art. 210 c.p.p., nonostante i rilevanti profili di ordine procedurale e di natura per così dire sostanziale che connotano in modo affatto diverso le ben distinte figure di dichiarante di cui trattasi.

Detta equiparazione è stata ritenuta in contrasto con il parametro costituzionale di cui all'art. 3 Cost. dal Tribunale di Novara, che - con specifico riferimento alle dichiarazioni rese quale testimone assistito da persona originariamente coimputata del medesimo reato, nei cui confronti era stata pronunciata sentenza irrevocabile di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. - con ordinanza di rimessione del 4 luglio 2003 ha ritenuto di dover investire della questione il giudice delle leggi 1.

La trama argomentativa dell'ordinanza del giudice a quo è, essenzialmente, la seguente:

a) l'assunzione della qualità di testimone rende la posizione dei dichiaranti ex art. 197 bis c.p.p. nettamente differenziata rispetto a quella degli altri imputati in un procedimento connesso o di reato collegato, che vengano sentiti ai sensi dell'art. 210 c.p.p.: questi ultimi, infatti, a differenza dei primi, non hanno l'obbligo di dire la verità e, conseguentemente, nel caso di dichiarazioni false o reticenti, non commettono il reato di falsa testimonianza (art. 372 c.p.); inoltre, gli imputati in procedimento connesso o di reato collegato sono ancora in attesa di giudizio definitivo: il che può ingenerare il sospetto di dichiarazioni strumentali. Sospetto di «strumentalità» che, invece, non può sfiorare i «testimoni assistiti», avendo i medesimi definito la propria posizione processuale, senza alcuna possibilità di modifiche peggiorative a seguito della deposizione, stante la garanzia della completa inutilizzabilità in loro danno delle dichiarazioni rese, prevista dal comma 5 del medesimo art. 197 bis;

b) le ragioni processuali e sostanziali poste alla base della limitata efficacia probatoria, prevista dall'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., delle dichiarazioni rese dai soggetti ivi considerati, non sono affatto ravvisabili rispetto ai «testimoni assistiti» di cui all'art. 197 bis, comma 1, c.p.p. La posizione dei testimoni in questione, invero, non differisce da quella dei testimoni ordinari, assumendo entrambi l'obbligo di dire la verità, ex artt. 198, comma 1, e 497, comma 2, c.p.p., e le conseguenti responsabilità penali in caso diPage 138 sua violazione. Le scarse discrepanze del regime processuale (v. commi 3 e 4 dell'art. 197 bis c.p.p.) rispondono ad esigenze «di garanzia», giustificate dai peculiari presupposti dell'assunzione della qualità di testimone assistito.

In sostanza, secondo il giudice rimettente, la norma impugnata avrebbe, per un verso, ingiustificatamente equiparato i soggetti in parola agli imputati in un procedimento connesso o di reato collegato, sentiti ai sensi dell'art. 210 c.p.p., e, per un altro verso, ingiustificatamente differenziato i soggetti medesimi rispetto ai testimoni ordinari.

@2. L'ordinanza di manifesta infondatezza.

La Consulta, pronunziandosi sulla questione, l'ha dichiarata manifestamente infondata con ordinanza dell'8 luglio 2004 (depositata il 22 luglio) 2.

La normativa censurata esprime - si legge nella motivazione dell'anzidetta ordinanza - la strategia di fondo che ha ispirato il legislatore della legge 1º marzo 2001, n. 63: strategia consistente nell'enucleare una serie di figure di «dichiaranti» nel processo penale in base ai diversi «stati di relazione» rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una graduazione che, partendo dalla situazione di assoluta indifferenza propria del teste ordinario, giunge fino alla forma «estrema» di coinvolgimento, rappresentata dal concorso del dichiarante nel medesimo reato. Ai vari «stati di relazione» corrisponde quindi una articolata scansione normativa di figure soggettive, di modalità di dichiarazione e di effetti del dichiarato.

Ciò premesso, secondo il giudice delle leggi, «la circostanza che nei confronti dell'imputato in un procedimento connesso o di reato collegato ex art. 371, comma 1, lett. b), c.p.p. sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di «patteggiamento», vale a differenziare la posizione del soggetto considerato rispetto a quella degli imputati in un procedimento connesso o di reato collegato ancora in attesa di giudizio definitivo: giustificando, così, la scelta legislativa di permettere l'audizione del soggetto stesso in veste di testimone, con correlata restrizione (nei limiti normativamente previsti) del «diritto al silenzio»; ma tale circostanza non basta ancora a «ripristinare», alla stregua di una ragionevole valutazione del legislatore, la condizione di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio che è propria del teste ordinario» 3.

La norma censurata troverebbe, in altre parole, «la sua ratio fondante nella considerazione che chi è stato imputato in un procedimento connesso o di reato collegato ex art. 371, comma 2, lettera b), c.p.p., anche dopo che è divenuta definitiva la sentenza di cui all'art. 444 c.p.p., non è mai completamente «terzo» rispetto alla imputazione cui la pena applicata si riferisce; l'originario coinvolgimento nel fatto lascia infatti residuare un margine di «contiguità» rispetto al procedimento, che si riflette sulla valenza probatoria della dichiarazione» 4.

@3. I «limiti» dell'intervento della Consulta.

Sembra a chi scrive che sia l'ordinanza di rimessione, sia l'ordinanza della Consulta risentano della tendenza classificatoria e sistematica che conduce ad esprimersi per verba generalia, nel velleitario tentativo di reductio ad unum di istituti complessi e proteiformi, quale quello della testimonianza assistita.

Tendenza che porta il giudice a quo a censurare tout court la disposizione in questione, sulla base di argomentazioni concepite con riferimento al «caso concreto» della testimonianza assistita del coimputato patteggiante e non necessariamente applicabili ad altre figure di cui al medesimo art. 197 bis (si pensi ai soggetti di cui al secondo comma della ricordata disposizione, che non hanno definito la propria posizione processuale, e rispetto ai quali, pertanto, il sospetto di strumentalità prospettato nella ricordata ordinanza non può essere escluso).

La Consulta, d'altra parte, pur affrontando la questione nell'ottica del «coimputato patteggiante», finisce con l'esprimere considerazioni che, fuoriuscendo dall'originario alveo, possono essere interpretate come il conferimento di una patente di legittimità alla disposizione in esame, unitariamente considerata.

Ci si riferisce, in particolare, alla ricordata affermazione secondo cui «... l'originario coinvolgimento nel fatto lascia infatti residuare un margine di "contiguità" rispetto al procedimento, che si riflette sulla valenza probatoria della dichiarazione...», che, nella sua genericità, sembra porre una pesante ipoteca su ogni ulteriore possibile questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la disposizione in questione.

Ma ciò che va anzitutto contestato è l'assunto della ordinanza della Consulta relativo alla strategia di fondo della legge sul c.d. giusto processo individuata - come detto - nell'enucleazione di «una serie di figure "dichiaranti" nel processo penale in base ai diversi "stati di relazione" rispetto ai fatti oggetto del procedimento».

Tale assunto sembra postulare l'esistenza, sul piano logico ed ontologico, in un certo senso «autonoma» rispetto al processo (anche se, ovviamente, ad esso imprescindibilmente connessa) delle varie figure di dichiaranti enucleate dal codice di rito a seguito della legge sul giusto processo. Figure che sembrerebbero stagliarsi dalla realtà sostanziale, riflettendosi in quella processuale (donde il riferimento alla indifferenza rispetto ai fatti del teste ordinario e alla forma estrema di coinvolgimento del concorrente nel reato).

In realtà - come si è cercato di dimostrare 5 - la legge n. 63/2001 sul c.d. giusto processo, sembra andare in tutt'altra direzione.

Con essa si è portata alle estreme conseguenze l'evoluzione sistematica - iniziata da circa due lustri a seguito di alcuni interventi della Corte costituzionale e della elaborazione giurisprudenziale che ad essi ha fatto seguito 6 - verso una categoria di persona di cui all'art. 210 c.p.p. (e, «per esclusione», del testimone ordinario) affatto eterogenea e con scarso valore definitorio, rispetto a cui le connotazioni formal-processualistiche sembrano prevalere nettamente rispetto a quelle ontologico-sostanzialistiche.

La legge n. 63/2001 sul c.d. giusto processo, invero, oltre ad aver introdotto, accanto a quelle del testimone «tradizionale» e della persona di cui all'art. 210 c.p.p., la singolare figura del testimone assistito, ha finito col degradare l'una e le altre da variabili indipendenti delPage 139 sistema processual-penale a mere variabili dipendenti di complessi meccanismi (endo-o inter) processuali.

Tale limite di sistema, in particolare, non è soltanto dovuto alla proliferazione di dichiaranti rispetto alle figure essenziali (imputato e testimone), quanto a fattori ulteriori: all'indecisione del legislatore nella scelta di un modello a cui realmente ispirarsi e, soprattutto, ad un fenomeno ancor più singolare ed incidente: quello della deteriorabilità della figura del...

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