La scadenza dei termini di durata massima delle misure cautelari (art. 303 c.p.p.): la responsabilità disciplinare del magistrato

AutoreDomenico Potetti
Pagine313-324
313
dott
Arch. nuova proc. pen. 4/2015
DOTTRINA
La scadenza dei termini
di durata massima
deLLe misure cauteLari
(art. 303 c.p.p.):
La responsabiLità
discipLinare
deL magistrato
di Domenico Potetti
SOMMARIO
1. La rilevanza del tema. 2. La scadenza del termine massimo
della misura cautelare f‌issata sulla base dell’interpretazione
normativa. 3. Gli errori del personale amministrativo e del
difensore. 4. L’onere dello scadenziario personale. 5. L’erro-
re del collega. 6. Le condizioni di lavoro e personali. 7. La
mancanza di danno effettivo. 8. L’esimente dell’art. 3 bis del
D.L.vo n. 109 2006.
1. La rilevanza del tema
Il tema dei termini massimi di durata delle misure
cautelari non è solo un tema principe del procedimento
penale.
Per il magistrato, l’omissione della tempestiva libe-
razione della persona sottoposta a misura cautelare, in
seguito alla scadenza dei relativi termini (art. 303 c.p.p.)
realizza un illecito disciplinare fra i più gravi.
Basti considerare una recente ordinanza delle Sezioni
Unite civili della Cassazione (1).
Essa ha ribadito che la fattispecie concreta del ritardo
nella scarcerazione dell’imputato o dell’indagato rende
contestualmente applicabili le previsioni del D.L.vo n. 109
del 2006, art. 2, comma 1, lett. a) e g), poiché non sussiste
tra loro un rapporto di specialità, che comporti l’esclusio-
ne dell’una o dell’altra (2).
Secondo le Sezioni Unite questo principio sarebbe coe-
rente con il disposto delle norme da cui è stato desunto,
le quali delineano le fattispecie di cui si tratta come com-
prese in cerchi non già concentrici ma adiacenti, anche se
in parte interferenti, sicché l’ambito di ognuna non com-
prende interamente quello dell’altra.
Le Sezioni unite disattendono quindi l’assunto secondo
cui la lett. a) cit. atterrebbe soltanto a comportamenti del
magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto
danno o indebito vantaggio ad una delle parti.
La tesi infatti sarebbe contraddetta dal tenore della
disposizione, che conf‌igura l’illecito disciplinare di cui si
tratta come conseguente alle violazioni dei “doveri di cui
all’art. 1”, tra le quali sono certamente comprese anche
quelle colpose, in quanto riferite, tra l’altro, al dovere
della “diligenza” nell’esercizio delle funzioni attribuite
al magistrato (la negligenza indica concettualmente un
comportamento non doloso, ma colposo, nel senso penali-
stico del termine: art. 43 c.p.).
Come conseguenza del riconoscimento (nella condot-
ta di omessa liberazione: art. 306 c.p.p.) e concorrenza
(anche) della fattispecie di cui alla suddetta lett. a), le
Sezioni Unite hanno dovuto misurarsi con una palese irra-
gionevolezza del sistema disciplinare.
Infatti, il D.L.vo n. 109 del 2006, art. 13, comma 1, prima
stabilisce che la sezione disciplinare del C.S.M., nell’inf‌lig-
gere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimo-
zione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra
sede o ad altro uff‌icio quando, per la condotta tenuta, la
permanenza nella stessa sede o nello stesso uff‌icio appare
in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione
della giustizia.
Poi però stabilisce anche che il trasferimento è sem-
pre disposto quando ricorre una delle violazioni previste
dall’art. 2, comma 1, lettera a) (nonché nel caso in cui è
inf‌litta la sanzione della sospensione dalle funzioni).
Le Sezioni unite hanno quindi esattamente avvertito
che questo meccanico automatismo fa apparire non im-
plausibile la tesi della violazione del principio di ragione-
volezza e quindi di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost..
Come riconoscono le stesse Sezioni Unite, la misura
del trasferimento di sede o di uff‌icio è particolarmente
aff‌littiva per il magistrato, sotto il prof‌ilo sia morale sia
materiale (3).
Pertanto, ritengono le Sezioni Unite, imporne inde-
fettibilmente l’irrogazione a tutti i comportamenti che,
violando i doveri di cui all’art. 1 del D.L.vo n. 109 del 2006,
arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle
parti (e quindi potenzialmente ad ogni condotta contraria
al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribui-
tegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità,
riserbo ed equilibrio, oltre che nel rispetto della dignità
della persona) comporta l’equiparazione, sotto il prof‌ilo
sanzionatorio, di un’ampia serie di illeciti disciplinari, che
pur essendo accomunati dall’elemento dell’ingiusto danno
o dell’indebito vantaggio per una delle parti, possono risul-
tare di ben diversa gravità.
Vi sono infatti inclusi comportamenti sia intenzionali
sia meramente colposi, che consistono inoltre nell’inos-
servanza di doveri non tutti di pari importanza.
La norma impedisce dunque al giudice disciplinare
di tenere conto di volta in volta di queste differenze e di
verif‌icare se l’applicazione della sanzione accessoria sia
necessaria per il conseguimento dello scopo che le è pro-
prio, e cioè evitare il pregiudizio per il buon andamento
dell’amministrazione della giustizia derivante dalla per-
manenza del magistrato nella sede o nell’uff‌icio.
Appare quindi vulnerato, osservano le Sezioni Unite, il
principio della indispensabile gradualità sanzionatoria e
della irrazionalità di ogni automatismo, enunciato dalla

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