Il ruolo della comunità nella costruzione della sicurezza, tra esclusione e partecipazione

AutoreGianluca Tramontano
CaricaCriminologo, dottore di ricerca in sociologia e ricerca sociale, università degli studi del Molise
Pagine1122-1135

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1. Introduzione

La sicurezza è un bene primario e, in un senso elementare, coincide con la sopravvivenza. Esiste ormai l’idea del diritto alla sicurezza o della sicurezza intesa come diritto, ma risulta piuttosto complicato analizzare il contenuto di tali proposizioni. Il concetto stesso di sicurezza è cambiato negli ultimi anni e cambia continuamente, anche in questo momento, allontanandosi dalla visione che la considera come atto di sovranità o di imposizione.

L’aggettivo, spesso abusato, che si accompagna al sostantivo sicurezza e che pare rappresentarne la cifra contemporanea è “partecipata”. Ma cosa si intende con sicurezza partecipata? «Che tutti partecipano al raggiungimento della sicurezza», potrebbe essere una risposta sensata, ma la questione non è così semplice, innanzitutto perché non si capisce bene chi dovrebbe partecipare a tale processo e, in secondo luogo, in che modo.

La questione della gestione della sicurezza e dell’individuazione dei soggetti competenti per prenderne parte è al centro di un dibattito forte che si sviluppa in maniera costante sia in ambito internazionale 1 che nazionale 2.

Esistono le forze di polizia tradizionali che da sempre si occupano di garantire la sicurezza dei cittadini, soprattutto attraverso la repressione e, solo parzialmente, la prevenzione. Altri soggetti, però, si sono aggiunti alle forze di polizia comunemente intese in questo lavoro: la Polizia Locale, l’industria della sicurezza privata e, in maniera sempre più importante, gli stessi cittadini, prima spettatori passivi, ora protagonisti in prima linea.

“Complementare”, allora, sembra essere un altro aggettivo assolutamente pertinente per la comprensione delle trasformazioni che stanno attraversando il campo della sicurezza, soprattutto urbana.

In aggiunta all’entrata in scena di questi nuovi protagonisti della sicurezza, va segnalata la continua trasformazione delle stesse forze di polizia, sia in ordine alla loro struttura che alle loro procedure operative. Le forze di polizia hanno sempre risolto problemi, ma storicamente, le loro attività, anche del nostro Paese, sono sempre state event driven, che potremmo tradurre con “dipendenti dall’evento”, cioè a dire che si attivano solo “dopo” che l’evento è accaduto.

Si parla, in questo caso di polizia reattiva. Pensiamo alle unità anti-rapina: entrano in azione dopo che la rapina è avvenuta e il loro unico obiettivo è catturare i rapinatori. Parallelamente, il loro successo viene misurato in relazione alla cattura dei rapinatori e al loro invio in prigione.

Il lato debole di questa classica attività di polizia è che, nonostante i successi nel “dopo evento”, non influisce sulla diminuzione delle attività criminali: la classica attività di polizia risponde in maniera inadeguata alle nuove esigenze di sicurezza sociale.

All’interno delle numerose sperimentazioni inerenti l’evoluzione delle attività di polizia e delle strategie di prevenzione e contrasto al crimine, una delle più promettenti e diffuse è il modello della community policing, la “polizia di comunità”.

A differenza delle attività della polizia classica, il suo successo si misura in base alla prevenzione, al controllo e alla diminuzione dei tassi di criminalità. Con ciò, però, non si intende sostituire la polizia alle agenzie di socializzazione tradizionali o agli apparati statali che si occupano di lavoro sociale; si tratta solo di innovare il ruolo della polizia.

Questo modello, infatti, offre alla polizia la possibilità di legarsi alla comunità a cui offre il proprio servizio, per cercare di coinvolgerla nelle attività di prevenzione e controllo informali ed essere messa a parte su ciò che accade o potrebbe accadere sul territorio. Permette ai rappresentanti delle forze di polizia di “entrare in confidenza” con i membri della comunità e conoscere ogni singolo problema esistente, con la possibilità di prevenire i crimini prima che avvengano. Piuttosto che reagire al problema una volta divenuto crimine, la polizia di comunità, attraverso la conoscenza diretta delle persone e del territorio, riesce a determinare in anticipo le cause di quei problemi, prevenendo il crimine. Questo strumento per la polizia, quindi, risulta essere efficace non solo per analizzare e risolvere i crimini (attività già presenti nel modello tradizionale), ma anche, e soprattutto, per prevenirli.

A questo cambio di paradigma, come tenteremo di spiegare, è legato a filo doppio l’evoluzione del concetto di prevenzione, che si declina ora in senso situazionale o, appunto, comunitario. Secondo questo approccio preventivo, il crimine non è soltanto un problema di polizia che si risolve con le sue uniche risorse. Il crimine va considerato come problema della comunità e la soluzione richiede un progetto sociale che si basa sulla stretta relazione tra polizia e cittadini. L’approccio di polizia di comunità, infatti, si basa sul concetto di cittadinanza attiva, perché in questo modello le attività di polizia richiedono il supporto decisivo della comunità. La partecipazione, ancora, è il concetto chiave.

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Allo stesso tempo, la polizia di comunità, richiede cambiamenti importanti a livello della “filosofia”, della struttura, della organizzazione e delle modalità d’azione degli apparati tradizionali.

È impensabile che, con il cambio di paradigma portato dalla declinazione comunitaria delle attività di polizia, queste possano continuare ad agire come hanno sempre fatto, modificando soltanto la terminologia con la quale si identifica la loro attività. E questi cambiamenti relativi alle strutture, all’organizzazione e alle attività delle forze di polizia, rappresentano un oggetto privilegiato della ricerca scientifica.

Il presente contributo, soprattutto per ciò che attiene gli sviluppi della polizia di comunità, avrà quale riferimento soprattutto la realtà anglosassone, in assenza di sviluppi integrati nel nostro Paese, ma il riferimento al nostro Paese sarà costante, quando possibile. Inoltre non ci occuperemo dell’analisi e dei commenti degli interventi normativi per come sono intervenuti nel campo della sicurezza e delle competenze dei vari attori a livello centrale e locale, ciò che tenteremo di fare, invece, è valutare se, e in che maniera, è possibile parlare di un modello integrato di sicurezza a partire proprio dalla sua possibile declinazione comunitaria.

2. Le città come luogo di insicurezza

La città, con i suoi pericoli e le sue risorse, lungi dall’essere un tema nuovo, è stata oggetto di ricerca di tanta parte della sociologia sin dai suoi esordi, da Durkheim a Simmel, dalla Scuola di Chicago a Goffman, fino ai sociologi della devianza e del controllo sociale degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, che hanno situato e analizzato il problema dell’ordine (e per certi versi del controllo) proprio nel contesto urbano.

Che cosa fa sì che possa esserci ordine in un contesto come quello delle città contemporanee, caratterizzato dalla molteplicità delle appartenenze e delle convinzioni, dalla disparità di risorse e opportunità? Su questo tema, la sociologia e la criminologia si interrogano da tempo, ma le risposte non sono univoche e, spesso, soddisfacenti.

Le forme urbane sono cambiate, crescendo in grandezza e in complessità e l’insoddisfazione per le contraddizioni crescenti tra il potenziale delle città e le soddisfazioni delle necessità dei suoi abitanti, ha riattivato una seria riflessione sulle condizioni di vita nei contesti urbani che, paradossalmente, sono peggiorate per l’incremento delle disuguaglianze, per l’aumento delle discriminazioni sociali, per l’esclusione e, non in ultimo, per le condizioni di sicurezza 3.

La questione della sicurezza urbana occupa un ruolo decisamente importante, quindi, non solo nella riflessione criminologica e sociologica, ma anche nell’opinione pubblica e nel dibattito politico sul governo delle città.

Negli ultimi decenni il peso delle realtà urbane ha caratterizzato il quadro politico anche del nostro Paese tanto che parlare di sicurezza urbana ha indicato da subito, e in maniera esplicita, il ruolo delle città come: “[…] il luogo ove si manifestano oggi problemi rilevanti di insicurezza e dove è necessario concentrare gli interventi. Il riferimento al contesto urbano tuttavia, allude anche agli attori istituzionali che hanno la responsabilità a livello locale di farsi carico dei problemi dei cittadini, compresi quelli relativi al rischio oggettivo di vittimizzazione e alla percezione dell’insicurezza, cioè gli amministratori delle città” 4.

In tal modo si è posto in evidenza il ruolo del sistema degli enti locali nella messa in opera di politiche della sicurezza, consegnando ad esso competenze e responsabilità dirette anche nella prevenzione e nel contrasto alla criminalità. Competenze e responsabilità che, fino ad allora, la tradizione giuridica e culturale del Paese assegnava, in maniera esclusiva, allo Stato.

All’evoluzione dei concetti fondamentali della sicurezza e della prevenzione in ambiente urbano, si è intrecciata, quindi, quella del quadro istituzionale in un’ottica integrativa.

La città rappresenta il campo naturale dove la paura della criminalità si diffonde e dove si dispiegano i suoi effetti. Dietro queste sollecitazioni, la città sta cambiando profondamente nelle forme, nell’organizzazione e nei comportamenti individuali e collettivi. Sul piano sociale, uno dei temi emergenti di tale crisi, è la diffusione di nuove insicurezze e, sul piano “disciplinare”, l’interesse per le nuove strategie di sicurezza.

Le città vengono percepite come sempre più insicure e pericolose; si parla in continuazione dell’aumento della criminalità e della violenza e della ricerca di soluzioni adeguate all’aumento dei fenomeni criminali (o anche solo delle “inciviltà urbane”) che è diventata il primo punto nell’agenda politica internazionale.

La sicurezza all’interno di una comunità può essere considerata come uno degli aspetti più importanti...

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