Riforma delle unioni civili: le questioni di natura penale

AutoreMarina Nenna
Pagine5-9
735
Rivista penale 9/2016
Dottrina
RIFORMA DELLE UNIONI CIVILI:
LE QUESTIONI DI NATURA
PENALE (*)
di Marina Nenna
È noto come ogni proposta che derivi da un serrato
dibattito politico e che da esso promani con l’intento di
raggiungere un accordo tra sensibilità differenti, spesso
presenti contraddizioni interne.
Invero, anche la L. n. 76/2016 risente di una genesi
compromissoria piuttosto sofferta, che, così come una co-
perta troppo corta tirata da entrambi i fronti del dibattito
politico, ha lasciato inevitabilmente parti scoperte.
E non v’è tema di smentita nell’affermare che il tratto
più “infreddolito” di questa nuova disciplina sia, appunto,
quello penale.
Le sporadiche ed apodittiche previsioni normative dalla
portata penalistica contenute nella nuova disciplina sono,
difatti, apparse sin da subito piuttosto farraginose e com-
porteranno uno sforzo interpretativo da parte degli opera-
tori del diritto copioso, volto a fornire omogeneità e siste-
maticità alla tutela dei nuovi diritti f‌inalmente riconosciuti.
Sforzo che, tuttavia, avremmo preferito fosse stato
compiuto dal legislatore, vista la portata epocale di una
riforma tanto attesa ed incidente sulla quotidianità dei
cittadini.
L’intervento si rivela, poi, doveroso in una materia,
come quella penale, governata, come si dirà tra poco, da
una riserva di legge stringente e dal divieto di analogia in
malam partem.
Lascia, pertanto, interdetti l’idea del legislatore di aff‌i-
dare l’estensione della disciplina ad un richiamo generico
contenuto nel comma 20 dell’art. 1: “Al solo f‌ine di assicu-
rare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempi-
mento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra perso-
ne dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al
matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniu-
ge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono
nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti
nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi,
si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile
tra persone dello stesso sesso…”. La disposizione succi-
tata, considerata una clausola generale di equivalenza
terminologica dalla portata antidiscriminatoria, si pone
l’obiettivo di equiparare, in termini di tutela dei diritti e
rafforzamento degli obblighi, la posizione dei componenti
delle unioni civili con quella dei coniugi.
Un’estensione, in realtà, attesissima e più volte solle-
citata negli ultimi anni, tanto dalla dottrina quanto dalla
giurisprudenza, per realizzare quella maggiore adesione
del codice penale al modif‌icarsi della realtà sociale ed, in
particolare, all’evolversi dell’istituto della famiglia, ormai
sempre più “delle famiglie”.
Sollecitazioni, peraltro, di altissimo prof‌ilo, poiché pro-
venienti persino dalla Corte costituzionale, la quale, nella
pronuncia n. 223 del 2015 relativa all’art. 649 c.p. ha def‌i-
nito come “indispensabile” un intervento sistematico del
legislatore in materia di reati contro il patrimonio com-
messi in ambito familiare.
La speranza è che il Governo approf‌itti dell’occasione
offerta dall’art. 1, comma 28, lett. c), della L. n. 76/2016
per chiarire le numerose zone d’ombra, fornendoci, invece,
una rivisitazione ed un aggiornamento f‌inalmente compiu-
to ed organico in grado di costruire una intelaiatura preci-
sa delle fattispecie e degli istituti interessati dalla riforma.
Statuisce la disposizione che “il Governo è delegato ad
adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di
unione civile fra persone dello stesso sesso nel rispetto dei
seguenti princìpi e criteri direttivi” tra i quali, al punto c)
annovera le “modif‌icazioni ed integrazioni normative per
il necessario coordinamento con la presente legge delle
disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza
di legge, nei regolamenti e nei decreti”.
È chiaro, dunque, che la necessità di riorganizzazione
sistematica della disciplina non è sfuggita al legislatore,
ma risulta, altresì, evidente come il richiamo sia fatto
esplicitamente solo per “le unioni civili” e che la delega
andrebbe, invece, estesa, a sommesso parere della scri-
vente, proprio per evitare la creazione di nuove discrimi-
nazioni, anche alle convivenze di fatto.
Dicotomia, questa, che emerge anche nel dettato dell’art.
1, comma 20, il quale, nel far riferimento alle unioni civili,
dimentica di estendere la stessa equiparazione anche alle
coppie di fatto.
Sempre il ventesimo comma dell’art. 1, poi, ci pone
altri quesiti interpretativi, restringendo l’equiparazione
ai soli casi nei quali vi sia necessità di tutelare i diritti
e rendere eff‌icace l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’unione civile.

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