Riflessioni a margine di un convegno sul caso Google/ViviDown

AutoreGiuseppe Cassano
Pagine1026-1034

    Il presente saggio costituisce la trascrizione del video intervento - il giorno successivo al deposito della sentenza in esame - di Giuseppe Cassano, direttore della Rivista Diritto dell’Internet e delle nuove tecnologie e Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche della European School of Economics.

Page 1026

@1. Il caso

La video ripresa acquisita con un cellulare delle molestie ai danni di un ragazzo down perpetrata a scuola da alcuni compagni di classe è stata caricata sulla piattaforma Google Video e così diffusa a una quantità indeterminata di altri utenti. La particolare crudezza dell’episodio e il riferimento sprezzante all’associazione (Vivi Down) che si occupa dei ragazzi con questo tipo di problemi ha destato lo sdegno nel mondo digitale. Appena si è assunta la consapevolezza dell’accaduto sono scattate le denunce alla Procura della Repubblica, sia da parte dell’associazione, sia da parte del padre del ragazzo coinvolto. I responsabili materiali del filmato e dell’upload alla piattaforma di Google Video, appresa la notizia dai giornali, si sono autodenunciati ad un’insegnante. Il citato filmato veniva rimosso da Google Video a circa due mesi di tempo dalla sua inserzione on-line e a ventiquattrore ore di distanza dal momento in cui un privato cittadino ed un agente di P.S. formalmente avvisavano la redazione del noto motore di ricerca della presenza del video de quo nel proprio spazio virtuale di competenza.

@2. Le condotte contestate agli amministratori di Google

I capi di imputazione contro gli amministratori della net company si sostanziano in concorso omissivo nel reato di diffamazione e nel reato di trattamento illecito di dati sensibili.

Mentre il primo capo di imputazione non trova accoglimento, gli amministratori-imputati vengono, invece, condannati per il reato di cui all’art. 167 D.L.vo 196/2003.

Invero, le questioni sottese ai capi d’imputazione formulati sono, come del resto considera lo stesso Giudice, strettamente interdipendenti, in quanto la configurabilità del concorso omissivo nel delitto di diffamazione dipende dall’idoneità del sistema normativo in tema di privacy a fondare un obbligo giuridico, a carico del titolare del trattamento dei dati, volto ad evitare eventi, quali quelli imputati a Google.

Sullo sfondo di tutte le considerazioni che la vicenda in oggetto suggerisce, si attagliano due questioni che a ben vedere rappresentano l’imprescindibile presupposto per definire correttamente gli eventuali profili di responsabilità degli amministratori della net company.

Da una parte, vi è la tanto discussa (in processo) qualificazione di Google alla stregua di un hoster provider o di un content provider (distinzioni classificatorie dalle quali, in un primo momento, il Giudice sembra prescindere ai fini della configurabilità del delitto di trattamento illecito dei dati personali, per poi attribuirle (pare), nel proseguo della motivazione, significato dirimente per la condanna degli imputati). Dall’altra parte, vengono in rilievo le interrelazioni tra gli ambiti di applicazione della disciplina della e-commerce, di cui al D.L.vo 70/2003 e la normativa sulla privacy, delineata dal D.L.vo 169/2003.

Anticipando le conclusioni a cui perviene il Giudice, il motore di ricerca Google viene qualificato non un semplice intermediario, ma un content provider.

La condotta penalmente rilevante che viene riconosciuta in capo ai responsabili di Google Italia s.r.l. sarebbe quella di aver gestito il servizio offerto da Google Video, omettendo di fornire (colpevolmente) ai propri inserzionisti telematici chiare e puntuali informazioni sulla corretta modalità del trattamento dei dati personali, con riferimento a quei dati appartenenti alle persone che compaiono nel video, diverse da quelle che tale video hanno immesso nella rete; avrebbero fatto ciò al fine di raccogliere un numero sempre più elevato di filmati per accrescere l’interesse al servizio da parte di eventuali acquirenti di spazi pubblicitari su Internet, in tal modo concretizzandosi il dolo specifico richiesto dall’art. 167 D.L.vo 196/2003.

@3. Una prima riflessione: il (benvenuto) tradimento delle (non auspicabili) aspettative suscitate dalla lettura del dispositivo

La lettura della sentenza, in esame, ben 111 pagine, lascia certamente sconfortati, venendo in mente quanto Schopenhauer diceva dei filosofi del suo tempo: «Secondo il metodo omeopatico, un minimo insignificante di pensiero viene diluito in un profluvio di parole e si continua così tranquillissimi a cianciare di pagina in pagina, con una fiducia illimitata nella pazienza del lettore. Invano l’intelligenza condannata a questa lettura spera in pensieri autentici, solidi e sostanziali: essa spasima, spasimaPage 1027 attendendo un qualsiasi pensiero - come il viaggiatore nel deserto d’Arabia sospira l’acqua - e dovrà morire di sete».

Tanto più se si considera che il relativo principio di diritto che viene affermato in sentenza e che costituisce la base giuridica su cui viene fondata la condanna degli amministratori di Google, al di là della correttezza o meno di quanto ritenuto, appare tradire le aspettative (o sconfessare le paure, a seconda del punto di vista in cui ci si pone) che la lettura del dispositivo aveva suscitato nell’opinione pubblica. Basti considerare che allo stesso Giudice, nella parte finale della sentenza, parafrasando una famosa commedia di Shakespeare, viene da dire “too much ado about nothing” (molto rumore per nulla).

In dottrina, peraltro, a mo di profezia infausta, ci si era anche spinti ad osservare: «(…) Escludendo, infatti che tutto si riduca al fatto che nelle condizioni generali di Google non c’era o era carente l’informativa all’utente circa la necessità di acquisire il consenso del terzo ripreso prima di caricare il video, considerato che vi erano dati sensibili - perché se così fosse saremmo di fronte ad uno di quegli inutili formalismi che invece di elevare la tutela della privacy, ne fanno scadere ogni sostanziale percezione tra i comuni mortali (non avvocati)».

In tale ottica, sembra che la costruzione di ingegneria giuridica, abbastanza claudicante - come definita dal Garante Privacy - sia stata l’effetto di una pressione mediatica, e di una precomprensione del giudice, tale per cui a fronte di una richiesta di condanna per violazione della privacy e per diffamazione, un mimino di pena si sarebbe dovuta scontare, almeno sotto il profilo della “sanzione mediatica”; orbene, in questo ragionamento, nelle pieghe della disciplina della privacy, si scopre una norma che sembra funzionale al caso de quo.

Con ciò si raggiungono due obiettivi, il ragionamento di condanna autonomo del giudice (anche io sono in grado di rinvenire in determinati comportamenti un reato, con distinguo, quindi, dalle posizioni della procura, di cui in verità la sentenza costituisce per gran parte un “copia ed incolla”), l’irrogazione della sanzione che nella logica buoni/cattivi, deboli/forti, era giusto comminare.

@4. La valutazione in diritto delle emergenze processuali

Dopo una prima parte che costituisce per lo più la fedele trasposizione degli atti d’indagine preliminare compiuti dall’organo d’accusa, la seconda sezione di cui è composta la motivazione si apre con una “valutazione in diritto delle emergenze processuali”.

Il giudice premette che il ritiro della querela da parte dei familiari del ragazzo offeso limita l’accertamento ai fatti che riguardano la seconda parte lesa, l’associazione Vivi Down, ma non fa decadere l’imputazione del capo A (concorso omissivo nel reato di diffamazione), contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa.

Quindi, risolve il problema della competenza territoriale, affermando che il reato è stato commesso anche a Milano, dove ha sede la società Google Italy “sotto il profilo del trattamento dei dati inteso come elaborazione e organizzazione degli stessi”.

Sarebbe lungo esaminare tutti i passaggi del ragionamento del giudice. Limitiamoci, quindi, alle questioni più rilevanti che hanno dato luogo alla condanna e a quelle che possono avere conseguenze su una non impossibile futura regolamentazione delle attività on line. E anche sul precedente che la sentenza può costituire per altri giudizi su casi simili (pur nei limiti di una decisione di primo grado, contro la quale è già stato annunciato l’appello).

La questione processuale che merita di essere sottolineata in tale prospettiva riguarda la giurisdizione: la normativa sul trattamento dei dati personali si applica (art. 5 D.L.vo 196/2003) ai trattamenti di dati personali “anche detenuti all’estero, effettuato da chiunque è stabilito nel territorio dello Stato o in un luogo comunque soggetto alla sovranità dello Stato” e anche “effettuato da chiunque è stabilito nel territorio di un Paese non appartenente all’Unione europea e impiega, per il trattamento, strumenti situati nel territorio dello Stato anche diversi da quelli elettronici, salvo che essi siano utilizzati solo ai fini di transito nel territorio dell’Unione europea”.

Dunque, venendo alla vicenda in esame, la prima parte del trattamento, cioè il caricamento del video, si svolge senza dubbio nell’ambito della giurisdizione italiana. Ma è stato giudicato in un altro processo.

Qui si discute solo della responsabilità di Google. E dalla ricostruzione fin troppo dettagliata compiuta dall’accusa, si evince che la rappresentanza italiana di Google non ha alcun ruolo nel trattamento: tutto è deciso negli USA. Dove non c’è alcun obbligo di rispetto della nostra normativa.

Tuttavia, il giudice arriva alla conclusione opposta, rifacendosi alla sentenza della Cassazione n. 49437 del 2009 (processo Pirate Bay), secondo la quale il provider concorre al reato di violazione del diritto d’autore nel momento in cui indicizza le informazioni. Ma le due situazioni non sono paragonabili, perché nel caso di Pirate Bay il processo di selezione e indicizzazione dei siti di file sharing è specificamente volto a fornire i link dai...

Per continuare a leggere

RICHIEDI UNA PROVA

VLEX uses login cookies to provide you with a better browsing experience. If you click on 'Accept' or continue browsing this site we consider that you accept our cookie policy. ACCEPT