Retribuzione ed altri istituti economici

AutoreMario Giovanni Garofalo - Massimo Roccella
Pagine401-502

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@ART. 1. FORME DI RETRIBUZIONE.

I lavoratori sono retribuiti ad economia o con una delle seguenti altre forme di retribuzione: a) cottimo individuale; b) a cottimo collettivo; c) con altre forme di incentivo determinato in relazione alle possibilità tecniche e all’incremento della produzione.

Allo scopo di incrementare la produzione attraverso un maggiore rendimento del lavoro, le parti riconoscono l’opportunità di estendere le forme di retribuzione ad incentivo.

@Commento di Elena Pietanza

Sommario: 1. Le forme di retribuzione alternative a quella ad economia. – 2. Il riferimento ai minimi contrattuali nell’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. – 2.1. Segue. L’ipotesi di differenziazione dei salari su base territoriale.

  1. – Come noto, la contrattazione collettiva ha avuto un ruolo fondamentale nella determinazione tanto della struttura e, dunque, della composizione qualitativa della retribuzione, quanto della sua misura e, quindi, del livello e delle relative modalità di calcolo1. La disposizione in commento interviene sul secondo profilo, limitandosi ormai da numerose tornate contrattuali, anche precedenti alla sottoscrizione del Protocollo 23 luglio 1993, ad indicare forme di retribuzione alternative a quella ad economia, riconosciuta implicitamente quale criterio prevalente e di ordinaria adozione nella determinazione del trat-

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    tamento economico del lavoratore. Tra i meccanismi di calcolo della retribuzione, alternativi a quella a tempo, la disposizione annovera la forma ormai sempre più desueta della retribuzione a cottimo nella duplice ipotesi del cottimo individuale, legato al rendimento del singolo lavoratore, e del cottimo collettivo, riferito al rendimento di un gruppo o di una squadra di lavoratori (rispettivamente lett. a e b)2.

    La successiva lett. c) dell’articolo non indica una specifica forma di retribuzione, ma contiene un generico riferimento ad altre possibili modalità di calcolo della retribuzione, accomunate dalla funzione incentivante determinata “in relazione alle possibilità tecniche e all’incremento della produzione”. L’inciso utilizzato pare rinviare ad indicatori meramente tecnici, quali la quantità di produzione, il risparmio nei costi o la qualità del prodotto, e non anche a parametri economici, quali il fatturato, il margine operativo lordo, gli utili di bilancio; conseguentemente, il riferimento deve ritenersi a sistemi incentivanti piuttosto che a sistemi partecipativi, all’interno dei quali il lavoratore non viene retribuito per un impegno ulteriore e aggiuntivo rispetto al normale adempimento, ma in ragione della funzionalità della prestazione individuale all’insieme dei fattori della produzione3. Nella prassi contrattuale, peraltro, tali forme di retribuzione non configurano autonomi sistemi retributivi, ma, come noto, concorrono a determinare elementi accessori del trattamento economico, svolgendo una funzione propriamente integrativa della c.d. pagabase4.

    Proprio in relazione a tali forme retributive, inoltre, le parti riconoscono l’opportunità di promuoverne l’estensione e la diffusione al dichiarato scopo di “incrementare la produzione attraverso un maggiore rendimento del lavoro”. Tale finalità, come noto, è stata ripresa all’interno del Protocollo del 1993, che indica, però, non solo indicatori tecnici, ma anche economici in una prospettiva di distribuzione della ricchezza acquisita dall’azienda in favore di chi ha contribuito, seppure indirettamente a realizzarla5. Ad oggi, malgrado la spinta impressa dalle previsioni contenute nel citato accordo triangolare, in particolare attraverso l’introduzione dell’istituto del premio di risultato6, gli esiti conseguiti in termini di recupero della produttività appaiono deludenti. Per un verso, i contratti nazionali hanno avuto un ruolo piuttosto marginale, non solo per effetto delle politiche negoziali di moderazione salariale, ma anche perché raramente hanno applicato la produttività media generata dai settori, benché il Protocol-

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    lo del 1993 prevedesse l’inclusione di tale parametro all’interno degli aumenti retributivi a livello nazionale7; per altro verso, la contrattazione decentrata si è dimostrata incapace, per una molteplicità di ragioni, di svolgere la funzione propulsiva attribuitale, manifestando una molteplicità di limiti8.

  2. – L’assenza di una legislazione sui minimi retributivi, pure da più parti auspicata9, ha portato la giurisprudenza a valorizzare i trattamenti previsti dai contratti collettivi, anche al di fuori del loro naturale ambito di applicazione10, sul

    presupposto che tale fonte normativa rappresenti lo strumento più adeguato per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione11. Tale operazione è stata possibile in una prospettiva attuativa della nozione costituzionale di retribuzione proporzionale e sufficiente, la quale richiede una continua attività integratrice di adeguamento del precetto alla mutevole realtà socioeconomica di riferimento, che solo il dinamismo della riflessione giurisprudenziale e non anche la rigidità di una previsione legislativa è in grado di garantire e realizzare. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, ancorché non univoco, tuttavia, non attribuisce alle determinazioni collettive efficacia vincolante, ma valore meramente parametrico nella valutazione giudiziale del rispetto dell’art. 36 Cost., rimettendo in ultimo alla discrezionalità del giudice la scelta di conformarsi a tali valori12.

    Benché non sia questa la sede per un’analisi della nozione di retribuzione desumibile dall’art. 36 Cost., è quanto meno necessario evidenziare che la fun-

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    zionalizzazione del trattamento economico alla realizzazione di un’esistenza libera e dignitosa impone un’autonoma valorizzazione del principio di sufficienza rispetto a quello di proporzionalità, che vada ben oltre il rispetto del c.d. minimo vitale. La funzione promozionale attribuita al criterio di sufficienza impone, invero, la valutazione di una molteplicità di variabili sociali, culturali ed economiche, che attengono ad “esigenze soggettive ed ‘extra sussistenziali’ del prestatore e della sua famiglia”, che non possono essere considerate assorbite dai parametri proporzionali previsti dai contratti collettivi13. A tale riguardo, tuttavia, occorre segnalare che la giurisprudenza, anche quando non si è assestata su posizioni c.d. minimaliste, ha raramente riconosciuto autonoma rilevanza alla nozione di retribuzione sufficiente. Ciò è accaduto in tutti quei casi nei quali i minimi contrattuali sono stati considerati inadeguati a garantire il rispetto del principio costituzionale di sufficienza14, giustificando il ricorso da parte del giudice a correttivi suggeriti dal caso concreto15. Storicamente, però, la giurisprudenza ha ammesso più frequentemente un intervento giudiziale di riduzione degli importi economici, ancorché sulla base di motivazioni diverse. Rinviando al prosieguo la questione relativa alla legittimità costituzionale di una decurtazione del trattamento economico fondata su base territoriale16,

    la giurisprudenza ha indicato quali elementi rilevanti per giustificare il riconoscimento di un trattamento economico inferiore a quello previsto dal contratto collettivo, e, in particolare dal contratto collettivo nazionale17, la quantità e qualità del lavoro prestato18, le condizioni personali e familiari del lavoratore, il

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    carattere artigianale e le dimensioni dell’impresa19. Tali elementi possono rilevare non solo in concorso tra loro, ma anche singolarmente considerati.

    In entrambi i casi (sia che lo scostamento avvenga verso l’alto che verso il basso), benché, come precisato, sussista una mera facoltà di attenersi alle determinazioni collettive, il giudice ha l’onere di fornire opportuna motivazione in ordine alle ragioni che lo hanno persuaso a determinare un trattamento diverso da quello fissato dall’autonomia collettiva20. Tale motivazione, se immune da vizi logici e giuridici, pone la decisione al riparo da qualsivoglia censura, poiché, secondo orientamento unanime della giurisprudenza, le valutazioni sottostanti il riconoscimento di una retribuzione sufficiente e proporzionale difforme dai parametri collettivi integrano una quaestio facti rimessa al giudice di merito21.

    Può ritenersi espressione della giurisprudenza minimalista22 anche la scelta di limitare la nozione di “minimo retributivo costituzionale” alla sola retribuzione base e all’indennità di contingenza23, escludendo ogni riferimento alle maggiorazioni o alle voci accessorie di derivazione contrattuale24, quali

    gli scatti di anzianità25, la quattordicesima mensilità26, il premio di produzio-

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    ne27. Più raramente, la giurisprudenza ha avuto un approccio possibilista: il richiamo e l’applicazione di tali elementi aggiuntivi, previsti dai contratti collettivi, sono stati ammessi laddove il giudice lo ritenesse utile o, secondo un orientamento più restrittivo, lo considerasse necessario ai fini della determinazione della giusta retribuzione28. Di contro, però, occorre segnalare che, quando i giudici sono chiamati a verificare se il trattamento percepito dal lavoratore sia conforme ai principi di proporzionalità e sufficienza, l’importo preso riferimento è quello relativo alla retribuzione globale di fatto29.

    2.1. – Nel novero degli elementi richiamati dalla giurisprudenza per giustificare un intervento al ribasso dei minimi contrattuali collettivi ai fini della determinazione giudiziale della retribuzione proporzionale e sufficiente, rientra il riferimento alla particolare realtà socioeconomica nella quale si svolge l’attività lavorativa. A tale riguardo, la giurisprudenza ha risentito del dibattito relativo alla differenziazione su base territoriale dei livelli retributivi, benché esso abbia interessato soprattutto gli ambienti politici ed economici, come confermato anche da un meno risalente tentativo di alcuni esponenti politici di riproporre le c.d. gabbie...

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