Prove di un diritto penale futuro: Controllo sulla discrezionalità penale

AutoreAdriano Martini
Occupazione dell'autoreProfessore di diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa
Pagine67-78

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@1. Premessa

Scriveva F. Bacone all’inizio del seicento nel suo De dignitate et argumentis scientiarum, e in particolare nel libro Le leggi delle leggi, Trattato sulle fonti del diritto universale per via di aforismi (Af. 8): “È di tale importanza nella legge la condizione di esser certa che altrimenti non potrebbe nemmen esser giusta … ottima è quella legge che nulla lascia all’arbitrio dei giudici: al che la certezza provvede”.

Si tratta di una vera e propria investitura. Al legislatore, e massimamente in un sistema democratico, è attribuito il compito fondamentale di dettare norme chiare, precise, poche. Sua la responsabilità delle scelte che fondano i cardini di un ordinamento giuridico, nel quale, tendenzialmente, è lecito limitare i compiti dell’interpretazione, dato che in claris non fit interpretatio.

Per tale via si perseguono due risultati, entrambi essenziali all’efficienza preventiva del sistema penale: la sua uniformità e la sua certezza, presupposti per una politica criminale che attraverso la legge persegua la salvaguardia dei valori. Il bisogno di evitare disarmanti disuguaglianze e pericolose incertezze è particolarmente sentito ove l’effetto dell’applicazione della norma consiste nella irrogazione di una pena, strumento in sé extra ordinem per gli effetti che produce sul condannato e per il costo che implica per l’ordinamento. In tal senso la Costituzione, come è ben noto, ha affermato un principio di riserva assoluta di legge sia in materia di diritto penale sostanziale (art. 25), sia in materia di diritto processuale penale (art. 111 comma 3).

Tornare su simili tematiche potrebbe sembrare per certi versi anacronistico, per altri quasi patetico. Da un lato il dibattito culturale sul primato della legge come strumento della politica criminale appare sopito, vittima di un torpore sintomo non di una consolidata consuetudine ma piuttosto di un oblio ingravescente, sotto la spinta di tecniche di legiferazione sempre più disinvolte (si pensi all’abuso del decreto legge, solo da poco tempo rimediato, e ora all’abuso della normazione delegata), dall’altro esso esprime unaPage 68la riforma della legittima difesa e della reCidiva tra teoria e prassi fiducia in un metodo di formazione della legge le cui sorti sono riposte in mani non necessariamente consapevoli della responsabilità che il ruolo comporta.

Confidare allora nella legge, come espressione di una volontà meditata e democraticamente formata, è forse illusorio. Eppure il diritto penale del nuovo millennio sembra ancora dilaniato dal conflitto di poteri che la scelta, ormai datata, in favore della riserva assoluta di legge in materia penale sembrava aver definitivamente risolto. Basti un esempio per tutti. Qualcuno lo ricorderà, apprestandosi alla riforma dell’ordinamento giudiziario nel corso della XIV legislatura si era proposto di considerare illecito disciplinare la violazione del dovere del giudice di interpretare la legge in modo letterale e in conformità alla “voluntas legis”: la norma era contenuta nell’art. 7 comma 1 lett. c) n. 7 del d.d.l. 1296 Senato della Repubblica, poi abbandonato. La disposizione, invero, sembrava riproporre, sanzionandolo, il principio già contenuto dell’art. 12 comma 1 delle Preleggi: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.

Il tentativo era di garantire la sottomissione del giudice alla legge, negando che al primo competesse di leggere, conoscere e affermare la legge mediante l’interpretazione. È illusorio credere che la legge si affermi per una propria autoevidenza, utilizzando il giudice come oracolo di una volontà altrove formata e compiuta. Né la lettera della legge né l’intenzione del legislatore possono essere contrabbandati come un qualcosa di obiettivo e conoscibile, come dati certi e acquisiti, sempre a disposizione di chiunque si confronti con il testo legislativo, sia esso il giudice ordinario o costituzionale, il cittadino o un pubblico funzionario.

È solo all’esito dell’interpretazione della legge che, spesso problematicamente, ci si avvicina a conoscerne la lettera e a rivelare così l’intenzione che in essa si è obiettivizzata.

Tralasciando di approfondire temi che travalicano i limiti delle capacità di chi scrive e certamente i limiti del presente lavoro, possiamo limitarci ad affermare che la legge si rivela per il tramite di un’espressione linguistica, una frase, parole utilizzate dal legislatore per descrivere una determinata situazione (cose della realtà naturalistica, relazioni, condizioni, situazioni della realtà giuridica, sociologica o politica), per poi farne derivare delle conseguenze (lato sensu sanzioni). Il processo interpretativo è il transito costretto che conduce alla conoscenza del contenuto di tale testo. Per esso si identifica quale realtà sia descritta dalle parole del legislatore e quale siano le regole giuridiche che ad essa devono applicarsi, e ciò attribuendo alle parole della norma un significato, riconducendo, quindi gli effetti dalla norma prefigurati a un determinato “stato di cose”.

Tale operazione può implicare la ricostruzione complessiva del quadro di operatività di una norma [interpretazione dottrinale o scientifica] oppure la soluzione di un caso concreto, preventiva [interpretazione da parte dell’utente della norma o da parte del funzionario pubblico chiamato ad applicarla in via pregiudiziale] o successiva [da parte del giudice].

La situazione in cui si esprime la necessità di interpretare non è irrilevante: essa infatti è impastata di valori, di beni, di interessi concreti che non possono che influenzare la decisione e quindi il suo metodo.

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@2. Interpretazione e discrezionalità

Se l’interpretazione è, per quanto sopra detto, il solo strumento per stabilire quale sia il significato di una determinata disposizione normativa e quindi quali casi debbano essere ricondotti alla regola in essa contenuta e alle sanzioni che ne conseguono, allora solo dopo l’interpretazione sarà possibile stabilire quale sia la “lettera e la volontà della legge”.

Immaginare che tale dato sia un limite a priori del potere interpretativo è fuorviante: tale asserzione implica che esista una sola interpretazione possibile dalla legge e che questa sia custodita in un qualche empireo, politico o giurisdizionale, come pietra di paragone dello sforzo dei singoli giudici. Ciò non è vero e non può essere vero, in quanto ogni interpretazione, e soprattutto quella giurisdizionale deve essere contestualizzata al caso concreto, secondo i criteri operativi della logica situazionale.

In fondo già F. Bacone, nell’opera sopra citata, all’aforisma 32, ricordava come “la legge, giova ripeterlo, a tutti i casi non basta, ma sol si adatta a quelli che per lo più succedono: sapientissima cosa è il tempo, dicevan gli antichi, e di nuovi casi alla giornata producitore e inventor fecondo”.

A questo nuovo può dare risposta solo il giudice con la propria interpretazione, dovendo incontrare come unico limite l’onestà intellettuale e il rigore del metodo scientifico (giuridico).

Talvolta all’esito di tale sforzo interpretativo il giudice perviene a scoprire che la legge ha rimesso a lui il potere dovere di identificare la regola del caso concreto, posto che la legge in quanto tale non è in grado di esprimere tale regola. Siamo nel campo della discrezionalità penale.

Se l’interpretazione presuppone che la legge abbia fissato un concetto o un valore, magari in modo indiretto, la discrezionalità è il giudizio del caso concreto, posto che, come ha scritto Franco Bricola, “solo il caso concreto è in grado di esprimere la significatività del valore che condiziona un certo trattamento giuridico-penale”.

L’esempio paradigmatico del modo attraverso il quale il legislatore affida al giudice un compito di integrazione attualizzazione del comando normativo per il tramite della valutazione di elementi non predeterminabili in astratto è ancora (anche se un po’meno) offerto dall’art. 62 bis c.p.: il legislatore riconosce che è impossibile prevedere in anticipo le infinite situazioni in cui una circostanza legata alla concretezza del caso, rivela un valore attenuante che non può sfuggire al diritto senza compromettere la sua funzione di regola adeguata e proporzionata alla realtà della vita.

Non potendo prevedere tutto, la legge si affida al giudizio di chi deve applicarla, fornendo dei limiti di carattere generale al potere di selezionare gli elementi rilevanti (dai quali far discendere l’effetto attenuante: nel caso di specie considerare dati della realtà fenomenica che comunque si ricolleghino agli elementi costitutivi del fatto materiale tipico offensivo). La discrezionalità penale è per sua natura vincolata e monofasica, nel senso che essa deve essere guidata dai criteri dell’art. 133 c.p. e non può che produrre quegli effetti che i presupposti implicano.

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@3. La legge n. 251/2005: la partita a scacchi del legislatore con l’interprete

La lunga premessa ci porta al tema del nostro colloquio.

La legge 5 dicembre...

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