A proposito di giudizio di legittimità: il caso marta russo

AutoreEnzo Musco
Pagine425-428

    Si riporta di seguito, il testo della sentenza citata nell'articolo con cui la Corte Suprema ha annullato la pronuncia di condanna della Corte d'assise di appello di Roma.


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  1. - Il caso Marta Russo non finisce di stupire. Ogni suo passaggio giudiziario sembra, infatti, innescare una nuova polemica e far emergere nuovi e gravi problemi di diritto. Dopo il clamore suscitato dalla scoperta del famoso video shock e le feroci polemiche che ne accompagnarono la mancata utilizzazione nel processo, si è passati a due stranissime sentenze di condanna che hanno configurato un mai contestato omicidio colposo e, poi, alle roventi polemiche per la richiesta di annullamento pronunciata dal procuratore generale della Cassazione per illogicità e contraddittorietà della motivazione 1.

    A questa «regola» non sembra sfuggire, ora, la pubblicazione della motivazione della sentenza di annullamento: e se lo stupore non può, per ovvie ragioni, traferirsi a livello di opinione pubblica, essendo destinato a rimanere nel ristretto recinto degli addetti ai lavori, ciò non vuol dire che possiede meno interesse «pubblico» o minore valenza cautelare. Anzi è proprio il contrario: la lettura dei motivi della decisione (pp. da 29 a 40) non può non avviare una riflessione critica sul significato e sui limiti del giudizio di legittimità, alla luce della quale valutare la correttezza della decisione medesima, in un momento storico peraltro in cui la crisi della Cassazione è diventata patrimonio comune degli addetti ai lavori. Riflessione tanto più urgente se si valutano le argomentazioni dei Supremi Giudici con riferimento alle rigorose ed articolate deduzioni della requisitoria del procuratore generale che il lettore può leggere nel precedente fascicolo di questa rivista.

    Come è noto, la riforma processuale del 1989, tra l'altro, perseguì l'obiettivo di limitare il ricorso al terzo grado di giudizio ai soli casi di illogicità e di contraddizione della motivazione derivanti dal testo del provvedimento impugnato, nel tentativo - apprezzabile solo fino ad un certo punto - di porre un limite a pretestuose ed ingiustificate impugnazioni e soprattutto per evitare che il giudizio di legittimità si trasformasse in un terzo giudizio di merito.

    Il giudizio di legittimità è, dunque, destinato a controllare il ragionamento probatorio del giudice sui fatti e presenta dei connotati tipici che servono a distinguerlo dal giudizio di merito. Come è stato ben scritto, «l'intervento della Corte di cassazione risulta compatibile con il giudizio di legittimità solo se non si spinge a sindacare la decisione di merito sul fatto, ma si limiti a controllarne la giustificazione. Infatti può accadere che una decisione corretta risulti mal giustificata o, al contrario, che una decisione discutibile risulti correttamente giustificata. E il giudice di legittimità non può formulare una propria ipotesi ricostruttiva del fatto né proporre massime di esperienza alternative a quelle adottate dal giudice di merito per quanto plausibili e logicamente sostenibili, ma deve limitarsi a controllare che l'ipotesi ricostruttiva formulata o accolta dal giudice del merito risulti coerentemente verificata sulla base di plausibili massime di esperienza» 2.

  2. - Ebbene: a questi principi non si è attenuta la Corte Suprema nella sua decisione di annullamento della sentenza di condanna della Corte d'assise di appello di Roma che aveva confermato la sentenza di condanna di primo grado.

    Per rendersene conto, è sufficiente analizzare passaggio dopo passaggio le motivazioni che la Corte ha posto a fondamento della sua decisione. E cominciamo proprio con il punto in cui essa afferma che «la prova generica non ha alcun valore decisivo in questo processo...», (p. 39), nonostante il giudice d'appello, convinto della dichiarata necessità (p. 465 sent. C.A.) di «fare tutto il possibile per raggiungere la verità», avesse d'ufficio, in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, disposto ben tre perizie («alcune delle quali avveniristiche ed ultrasofisticate») ed imperniato la ricostruzione dei fatti posti a base della sua decisione di condanna sulla «convergenza» di entrambi i «filoni probatori» del processo costituiti dalla prova «generica» e da quella «specifica» (p. 261 sent. annullata).

    Ad avviso della Corte Suprema, dunque (p. 38), il giudice avrebbe dovuto evitare di «avventurarsi in discutibili affermazioni di principio sui rapporti tra prova generica e prova specifica» e in tal modo «si sarebbe reso soprattutto conto dell'inutilità di disporre d'ufficio la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale perché venissero compiuti una serie di nuovi accertamenti peritali, ritenuti assolutamente necessari ai fini della decisione (arg. ex art. 603 comma 3 c.p.p.), ad onta dell'eufemistica giustificazione che il ritiro della Corte in camera di consiglio, dopo la chiusura della discussione finale, era dettato dall'esigenza di valutare le risultanze probatorie anche alla luce delle argomentazioni svolte dalle parti».

    Secondo la Corte Suprema, infatti (p. 38), «l'espresso richiamo all'art. 523 comma 6 c.p.p. rende esplicito che la Corte ha erroneamente ritenuto "l'assoluta necessità" di disporre due nuove perizie, quella balisica e esplosivistica (cui è seguita in un secondo tempo e come diretta derivazione di quest'ultima la terza perizia, quella nanotecnologica), perché riteneva - al di là di ogni comprensibile e ragionevole eccesso di scrupolo e di completezza dell'indagine istruttoria di primo grado - di non essere in grado di decidere in base alle prove già acquisite».

    A giudizio della Corte, dunque, il giudice d'appello avrebbe inutilmente (e perciò erroneamente) disposto la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale giacché tale istituto, nel giudizio di appello, «è notoriamente un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso soltanto quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti».

    Orbene, proprio il riferimento alla «discrezionalità» del giudice del merito evocata dalla Corte Suprema, autorizza più d'una perplessità circa l'ortodossia dei poteri censori esercitati dal giudice di legittimità per «cassare» la decisione di rinnovazione istruttoria. Questa decisione, invero, era frutto della stringente necessità avvertita dal giudice di appello di evitare che il parterre probatorio fosse costituito soltanto dalle risultanze di una prova «specifica» dichiaratamente ritenuta «problematica», come per l'appunto risultaPage 426 a pagina 367 della sentenza annullata laddove, con riferimento alle dichiarazioni di Gabriella Alletto, è detto che «il problema affrontato presenta aspetti di inusuale complessità», tanto da aver costretto la Corte a ritenere le stesse dichiarazioni attendibili (soltanto) «nelle loro parti essenziali», e che, con riferimento alla posizione di Francesco Liparota (p. 372 sent. C.A.), è detto che «la personalità del dichiarante e la situazione particolare in cui egli venne a trovarsi non aiutano molto - come già ritenuto per la Alletto - a risolvere il problema della sua credibilità».

    Se si considera, infine, che con riferimento alla posizione del teste Maria Chiara Lipari (non creduta in ordine al riconoscimento dell'imputato Scattone: p. 321 sent. C.A.), la sentenza cassata (p. 319) si è limitata a formulare un giudizio di «alta affidabilità (soltanto) in linea generale», tuttavia dichiarando la necessità che (p. 320) «le particolari circostanze in cui la sua testimonianza è stata resa e il processo di ricostruzione dei ricordi, da cui è caratterizzata, richiedono che i ricordi stessi siano confermati da altri elementi di prova», si può allora concludere che ce n'è abbastanza per rimanere stupefatti di fronte alla sicurezza con cui la Corte Suprema ha ritenuto che una prova dichiarativa di tal fatta presentasse connotati di affidabilità tali da impedire al giudiced'appello di disporre - siccome inutile - la censurata rinnovazione istruttoria.

    E lo stupore diviene ancor più forte ove si consideri che - secondo il richiamo contenuto nella stessa sentenza di annullamento - la corte di merito aveva sottolineato che il ritiro in camera di consiglio era stato dettato dall'esigenza di «valutare le risultanze probatorie anche alla luce delle argomentazioni svolte dalle parti», e che, incurante di tale avvertimento, la Corte Suprema ha liquidato tale giustificazione, sic et simpliciter, come «eufemistica», senza che ad alcuno, stante l'apoditticità dell'affermazione, sia dato logicamente comprenderne il perché.

    Invero, in presenza di una prova dichiarativa così «inusualmente complessa», ciò che risulta illogico è, per l'appunto, ritenere che il contributo dialettico delle parti non abbia potuto acuire i dubbi che la stessa prova doveva aver già suscitato nella coscienza del giudice, spingendolo alla rinnovazione istruttoria.

    Ne deriva che, già sotto questo profilo, risulta troppo improntata ad apodittica ed ingiustificata presa di posizione, in termini di giudizio di legittimità, l'affermazione di ritenuta erroneità/inutilità della disposta rinnovazione, specie ove si consideri che, per sicura giurisprudenza, il giudice di legittimità - al fine di evitare improprie sostituzioni nei confronti del giudice di merito - deve soltanto limitarsi a controllare che la motivazione sottesa all'ordinanza censurata appaia logica e plausibile, essendogli precluso ogni altro sindacato (Cass., sez. un., 23 novembre 1995, Fachini).

    Oltre a ciò, desta ancora sorpresa che il giudice di legittimità abbia ritenuto non necessaria la disposta rinnovazione sotto il profilo che (f. 39 sentenza) «a distanza di un periodo di tempo non indifferente dai fatti e stante la ragionevole previsione di non poter ottenere dalle disposte perizie tecniche (alcune delle quali avveniristiche ed ultrasofisticate, eseguite utilizzando metodi d'indagine mai sperimentati prima) risultati scientificamente certi ma solo di mera...

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