A proposito della impossibilità di un esercizio più ampio di una servitù costituita per titolo

AutoreBaldessarelli Franco
Pagine136-139
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dott
2/2012 Arch. loc. e cond.
DOTTRINA
A PROPOSITO DELLA
IMPOSSIBILITÀ DI UN
ESERCIZIO PIÙ AMPIO DI UNA
SERVITÙ COSTITUITA PER
TITOLO
di Franco Baldessarelli
Come noto il Capo quinto del Libro terzo del Codice
Civile prevede le norme regolatrici dell’esercizio delle ser-
vitù. In specif‌ico l’art. 1063 c.c. prevede che l’estensione e
l’esercizio delle servitù sono disciplinati dal titolo costitu-
tivo e, laddove mancante, dalle disposizioni a seguire.
Preliminarmente occorre quindi precisare che cosa si
intende per «estensione» e per «esercizio» della servitù
essendo tali concetti ovviamente correlati al «contenuto»,
all’«essenza», della servitù medesima. Nel diritto romano
il problema della individuazione del contenuto (e quindi
dell’estensione e dell’esercizio) della servitù era risolto
dalla previsione di un sistema di tipicità delle servitù: le
diverse f‌igure di servitù avevano ciascuna un contenuto ti-
pico che qualif‌icava la servitù stessa (1). Assumeva quindi
rilevanza all’interno del “contenuto” della servitù il modus
(2) quale determinazione (ulteriore) - o specif‌icazione -
dell’esercizio della servitù rispetto al suo contenuto tipico
ed astratto. Per esempio nella servitù di actus, che con-
sentiva il passaggio con il bestiame o con un veicolo, si
delimitava il passaggio ad un determinato veicolo od ad un
determinato bestiame (3). Dalla suddetta ricostruzione la
dottrina romanistica ha ritenuto da una parte che il modus
non misurava il diritto ma il suo esercizio (4), dall’altra
che il modus si compenetrava nel contenuto della servitù
determinando in concreto lo stesso (5): diventava una
specie di correttivo della tipicità della servitù costituita
laddove essa aveva una conf‌igurazione precisa (6).
Attualmente è stato precisato che l’«estensione» della
servitù “è costituita dalla tipologia e dalle caratteristiche
dei poteri che competono al titolare della servitù (e dei
corrispondenti obblighi gravanti sul proprietario del fondo
servente) e si risolve, in sostanza, nel contenuto della
servitù medesima” (7), mentre l’«esercizio» della servitù
si riferisce “alla effettiva realizzazione del suo contenu-
to, e cioè alle concrete modalità di esercizio dei poteri
spettanti al suo titolare” (8). Il successivo art. 1065 c.c.
dispone che il titolare di un diritto di servitù deve usarne
conformemente al suo titolo od al suo possesso e – co-
munque - nel dubbio circa l’estensione e le modalità di
esercizio, la servitù deve ritenersi costituita in modo tale
da comportare il minor aggravio del fondo servente. Detta
regola è di derivazione di un analogo antico principio di
diritto romano contenuto in D. 8, 1, 9 secondo il quale le
servitù dovevano venire esercitate civiliter. Il testo, di Cel-
so, precisa che dopo aver costituito la servitù di via (9), il
titolare poteva esercitarla per qualsiasi parte del fondo,
ma sempre civiliter modo, ovvero non poteva esercitarla in
mezzo alle vigne, e, quindi, pur mantenendo un passaggio
ugualmente comodo su altre parti del fondo, tale transito
doveva comunque comportare sempre il minor aggravio
per il fondo servente. Nel passo di Celso si può quindi
constatare come all’interno del diritto costituito, il conte-
nuto e quindi l’esercizio della servitù osservava il dettato
del suo soddisfacimento con il minor aggravio del fondo
servente (10). Ora, va detto che il principio romanistico
del minor danno per il fondo servente, caratterizzante
anche il codice previgente (11), permea anche la attuale
normativa relativa all’esercizio delle servitù (12). In linea
con tale principio infatti si pone l’art. 1067, primo comma,
c.c. secondo il quale il proprietario del fondo dominante
non può fare innovazioni che rendano più gravosa la con-
dizione del fondo servente, nonché gli articoli 1071, primo
comma c.c. e - con riferimento al minor incomodo - l’art.
1069, primo comma, c.c.. Fatte queste doverose premesse
possiamo tornare alle norme regolatrici dell’esercizio del-
le servitù. È stato sostenuto che l’art. 1063 c.c. “dà, per il
regolamento dell’estensione e dell’esercizio delle servitù,
volontarie o coattive, la preminenza al titolo costitutivo,
prescrivendo l’applicazione della disciplina legale soltan-
to in assenza del titolo e nei casi in cui in questo mancas-
sero tutte od alcune modalità di esercizio e di precisazio-
ne della estensione della servitù” (13). Con riferimento
all’art. 1065 c.c., poi, è stato specif‌icato che esso “limita
l’uso del diritto di servitù soltanto in conformità del titolo
per quelle così costituite e del possesso per quelle costi-
tuite per usucapione. Per le prime l’esercizio è regolato
interpretando il titolo secondo la volontà delle parti o
l’intenzione del donante o testatore; per le seconde esso
va regolato in conformità di quello esercitato durante il
periodo usucapionale” (14). Possiamo aggiungere che una
volta stabilita la modalità di esercizio di una servitù co-
stituita per titolo, essa modalità non può venire esercitata
in maniera più ampia (15), rimane quindi immodif‌icabi-
le salvo nuova diversa convenzione fra le parti (16). La
consolidata linea giurisprudenziale secondo cui quando la
servitù è fondata su titolo le modalità di esercizio devono
necessariamente ad esso fare riferimento, ha trovato ul-
teriore puntuale conferma in due recenti sentenze della
Cassazione del 2010 e cioè la n. 14088 dell’11 giugno 2010
e la 5434 del 5 marzo 2010 (17).
Con la sentenza n. 14088 dell’11 giugno 2010 la Cas-
sazione ha infatti stabilito che: “L’estensione di una servitù
convenzionale e le modalità del suo esercizio devono es-
sere desunte dal titolo, da interpretarsi con i criteri det-
tati dagli artt. 1362 ss. c.c., non potendo assumere alcun
rilievo il possesso, che è criterio idoneo per stabilire il
contenuto soltanto delle servitù acquistate per usucapio-
ne. Tuttavia, ove la convenzione non consenta di dirimere

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